Nella polemica sulla vicenda, già sgradevole in sé per la sua arbitrarietà, del presunto favore che la mafia, anche secondo la figlia Rita, avrebbe voluto fare a Giulio Andreotti uccidendo il generale e prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa il 3 settembre 1982, mi ha sorpreso e infastidito l’eccesso di scrupolo nella pur doverosa difesa di Andreotti in cui sono incorsi familiari e amici. Per provare i buoni rapporti fra il generale e l’allora ex presidente del Consiglio, e smontare quindi il teorema di un loro conflitto nella lotta alla mafia per il coinvolgimento della corrente andreottiana in Sicilia- se non di Andreotti in persona- in quella potente organizzazione criminale, si è detto e si è scritto, fra interviste televisive e rievocazioni giornalistiche, di uno sfogo di Carlo Alberto dalla Chiesa con l’autorevole esponente politico su simpatie, militanze politiche e quant’altro del figlio Nando. Che allora aveva già più di 30 anni.
Oggi ne ha 74, si gode la meritata pensione maturata come professore universitario e interviene con saggi e articoli sull’attualità politica e sociale da posizioni dichiaratamente e orgogliosamente di sinistra, conformemente anche alla sua esperienza parlamentare e di governo, essendo stato sottosegretario al ministero dell’Università e della ricerca nel secondo governo di Romano Prodi, dal 2006 al 2008. A leggere e sentire certe rievocazioni delle preoccupazioni confidate dal generale dalla Chiesa ad Andreotti sul figlio si potrebbe essere indotti nell’errore di considerarle ancora presenti quando il padre fu vittima, con la seconda giovane moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, dell’agguato mafioso a Palermo, in via Carini. Dove prima ancora della targa che ricorda ancora l’eccidio venne scritto su un cartello fortunatamente smentito dai fatti che «qui è morta la speranza dei palermitani onesti». Il generale morì sicuramente fra molti crucci, anche per i suoi rapporti col governo allora presieduto non da Andreotti ma da Giovanni Spadolini. Dal quale il prefetto si aspettava i maggiori poteri che aveva chiesto. E che peraltro gli erano stati privatamente suggeriti proprio da Andreotti, pur dissentendo dal ruolo di prefetto che il generale aveva deciso di accettare su proposta dell’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni.