Non correva dietro a una palla, il piccolo Rob. Non giocava a guardie e ladri, non organizzava inseguimenti per le strade polverose del South Side di Chicago. Mentre i due fratelli più grandi si correvano dietro, lui sistemava un’asse da stiro nel soggiorno di casa Prevost e la usava come un altare da dove distribuiva Necco Wafers, caramelle tonde e zuccherose, che dovevano essere delle ostie. Le mani giunte, lo sguardo assorto. A cinque anni, celebrava messa al 212 di East 142nd Place nel sobborgo di Dalton, una casa identica alle altre: mattoni a vista, passaggi a livello vicino, un mutuo da 42 dollari al mese. Lì si è compiuta una delle più straordinarie parabole spirituali del nostro tempo. Robert Francisco Prevost era più giovane di tre fratelli, cresciuto con la sobrietà di un padre sovrintendente scolastico, Louis, veterano della Seconda Guerra Mondiale, e la gentilezza colta di una madre bibliotecaria, Mildred, figlia di afroamericani cattolici e con due sorelle suore. Una genealogia che parla di America profonda e meticcia, di domeniche alla messa delle 9:15 nella chiesa di Santa Maria dell’Assunzione; di radici come focolai d’identità.
I fratelli chiamavano Rob “il santo”, ma lo facevano ridendo, come si ironizza su chi è un passo avanti e mette in soggezione. Avevano ragione. Il più grande ricorda che una vicina di casa disse a Rob: «Un giorno diventerai Papa». Lui si schermì, come sempre, non gli on piaceva scherzare su queste cose. Eppure, le parole di quella donna erano una profezia. Anche nel cognome c’era un segno del suo futuro- prevost evoca la carica religiosa di parroco. Che si tratti di eredità francese o italiana non si sa, pare che in lui scorra sangue piemontese che rimanda a Settimo Rottaro, ma anche ligure visto che suo nonno era arrivato in America partendo da Sanremo), ma di certo era destino che facesse il sacerdote e che arrivasse a Roma, al Pontificio Angelicum, per studiare Diritto Canonico come Karol Wojtyla prima di lui. Lo stesso destino lo spinse a partire per il Perù, nel 1985 e completare la missione agostiniana. Là, tra le sabbie e le piogge del nord del Paese, trovò la sua seconda casa. A Chiclayo Robert è stato prete, insegnante, priore, vescovo. Lo chiamavano el obispo de la calle (il vescovo della strada), perché camminava tra la gente, sorrideva sempre, non negava una parola gentile a nessuno. Cantava Feliz Navidad nelle scuole, portava la comunione agli ultimi, e negli stadi tifava con i suoi. A Chiclayo ha scoperto che la teologia cammina anche scalza tra le pozzanghere del Niño e che una maglia di calcio, quella della squadra locale, può diventare simbolo di una fede popolare, condivisa e redentrice. In tribuna, con un calore umano più eloquente di mille omelie. Non ha mai smesso di sentirsi “uno di loro”. Per questo regalava la maglia biancorossa ai vescovi in visita: in quella stoffa c’era il popolo e nel popolo c’era Cristo. Per questo, quando nel 2011 il Juan Aurich vinse il campionato per la prima volta, era in tribuna, emozionato come un tifoso qualsiasi.Robert Prevost trasformò il trionfo sportivo in un evento liturgico. Oltre 500mila persone festeggiarono in piazza, davanti alla cattedrale. don Robert uscì, benedì la coppa e una città intera.
In quel Perù martoriato dalla povertà, dalle frane e dalla pandemia, Prevost ha saputo camminare nel fango, letteralmente. Le immagini postate dalla diocesi nel marzo 2023 lo ritraggono mentre soccorre le vittime del ciclone . Ha denunciato le disuguaglianze, ha chiesto più interventi per i lavoratori senza tutele sindacali, ha spinto la Chiesa a farsi popolo. Per questo, anche i fedeli di Huancavelica, a 3600 metri d’altitudine, oggi rivendicano con orgoglio: «Il mondo lo conosce solo adesso. Per noi è sempre stato un fratello. Ci ha insegnato a leggere e a difenderci». Robert Prevost parla tre lingue, ama guidare, leggere, giocare a tennis. È un fan dei White Sox e della Roma, sì, la squadra giallorossa. La sua elezione, ironia della storia, è avvenuta il giorno dell’anniversario del secondo scudetto della Roma. Ma dai campi sportivi ai palazzi vaticani, il passo non è stato breve. Il Sud America che lo aveva accolto come missionario venti anni prima, ha visto il suo vescovo, con la pazienza di un artigiano e l’amore di un fratello, scalare silenziosamente la Curia romana fino al Dicastero dei Vescovi dove Francesco, che aveva conosciuto tra le comunità agostiniane di Buenos Aires, ha visto in lui il profilo del successore. Non solo per la competenza, ma per l’odore delle pecore, come avrebbe detto lui stesso. Aveva ragione.