S i dice “mangiar cinese”, ci si infila per la verità in un all-you-can-eat di cucina asiatica fusion, ma chi mai direbbe “mangiar europeo” confondendo il poronkäristys lappone di renna con marmellata di mirtilli rossi e i tortellini in brodo della nonna bolognese, tollerate anche le zie modenesi? Le acque che bollono nei tegami cinesi sono, cioè, vaste come mari e come tutti i mari sono solcate da onde diverse. Per non incagliarsi nei sargassi dell’imbarazzo o naufragare negli abissi delle gaffe è allora indispensabile un sestante come Invito a un banchetto. Sapori e storie della cucina cinese (Add editori) di Fuchsia Dunlop, laurea a Cambridge, prima occidentale a diplomarsi chef nell’Istituto superiore di cucina del Sichuan, fluente in mandarino, autrice di altri sei titoli in materia e già collaboratrice della BBC.
Il libro ha pregi enormi: non essere un libro di cucina, bensì di cucine; non dover nulla ai programmi tivù di cuochi e soi-disant, che, per carità, sanno essere irresistibili, ma l’overtourism è una piaga anche tra i fornelli; parlare di ricette per parlare di altro. Invito a un banchetto entra infatti nelle cucine per viaggiare fra costumi, etnie e persino lingue, dialogando con un popolo che in realtà è un insieme di popoli (anche al netto delle rapine di genti, storie e mappe geografiche operate dal regime comunista sin dal 1949). Tutti ripetiamo dal televisore che la cucina è cultura, ma spesso senza capire. Perché prima delle risposte ci vogliono le domande, e giuste: «che cos’è il cibo cinese, come dovremmo considerarlo e – altrettanto importante – come dovremmo consumarlo?».Solo uno come Ludwig Feuerbach, che ha fatto molto per la costruzione distruttiva del comunismo, poteva dire che l’uomo è determinato da ciò che mangia. Invece l’uomo governa il nutrimento, plasmandolo in comunicazione, prospettiva, concezione, mentalità, identità.
Così i cibi cinesi diventano «chiavi attraverso cui gli stranieri potrebbero cominciare ad apprezzare la cultura cinese nel suo complesso». TRA PASSATO E FUTURO La Dunlop riferisce divertita una novella di Lu Wenfu, Vita e passione di un gastronomo cinese (1983). Gao Xiaoting era scioccato dai locali dove dentro ci si satolla e fuori mendicano gli straccioni. Arrivano i comunisti e Gao porta la rivoluzione in cucina, sfornando cibo cheap per gli operai. Ma la gente rimpiange i piatti tradizionali. Dopo il maoismo, Gao diventa gastronomo gourmet e si arrende al fatto che «l’amore per il cibo è una componente ineludibile della vita cinese», «una cristallizzazione dove le conquiste materiali e spirituali della nostra civiltà trovavano una sintesi perfetta». Ricchi e meno abbienti condividono la passione per ingredienti di lusso. Un bimbo sano e grassottello «si infila in bocca un cioccolatino con evidente piacere»: «non abbiamo solo una mente, ma anche una pancia. Dobbiamo mangiare e amare». Realismo, pietanza ignota agli ideologi.
Taglia netto come un trinciapollo il catalano Ferran Adrià, «uno dei pochi chef occidentali ad avere riconosciuto pubblicamente l’estrema sofisticatezza tecnica della cucina cinese. In un’intervista a un giornalista inglese ha dichiarato che il personaggio politico più importante della cucina degli ultimi cinquant’anni è Mao Zedong: «Tutti vogliono sapere qual è il Paese dove oggi si mangia meglio», disse. «Per alcuni è la Spagna, per altri è la Francia, altri ancora rispondono l’Italia o la California. Ma tutti questi posti lottano per il primato solo perché Mao ha distrutto la superiorità della cucina cinese mandando i cuochi a lavorare nei campi e nelle fabbriche. Se non l’avesse fatto, tutti i Paesi e tutti gli chef del mondo, me compreso, sarebbero ancora all’inseguimento del dragone cinese». Nota raffinata la Dunlop che «in cinese lo stesso carattere significa sia “armonia” (he) sia “mischiare” (huo)» e che dunque «in alcune parti della Cina, in particolare al Sud, un cucchiaio per la zuppa è ancora chiamato tiaogeng («armonizzare il geng»)». Il regime ha invece distrutto questo impasto atavico e saporito di filosofia, lingua e cucina, sfornando un polpettone indigesto. «Quando disse di voler costruire una società “armoniosa”, l’ex presidente Hu Jintao usò un termine che in Cina risuona da migliaia di anni, sia in cucina sia nel governo. Purtroppo, lui e i suoi successori hanno spogliato questa analogia del suo senso originario, ovvero che l’armonia non equivale a calma e piatta uniformità ma è una mescolanza di opposti complementari, e anche le parole critiche possono aiutare chi governa a prendere le decisioni migliori»