È passata del tutto inosservata, nella teoria di celebrazioni dei tanti ottantesimi della seconda guerra mondiale, la ricorrenza del Processo ai Sedici «banditi fascisti polacchi travestiti da democratici (...) al servizio di Hitler». Era questo il modo sprezzante e ovviamente falso con cui venivano definiti in aula i patrioti polacchi accusati di aver «diffamato l’Armata Rossa» che aveva «liberato la Polonia» definendola «nuova occupazione», di spionaggio e di attività antisovietica.
I sedici leader anticomunisti erano stati tutti attirati con l’inganno e arrestati dall’Nkvd, nel più ampio piano di Stalin di distruggere ogni forma di opposizione politica al nuovo ordine comunista.
La personalità più nota era il generale Leopold Okulicki, ultimo comandante dell’Esercito nazionale polacco (Armia Krajowa), emanazione del Governo polacco in esilio a Londra, i cui componenti erano stati fucilati, arrestati e deportati ovunque fossero arrivate le truppe sovietiche. Okulicki e il delegato del governo a Varsavia Jan Jankowicz il 27 marzo del 1945 erano stati convocati dal comandante di piazza sovietico il quale affabilmente, in precedenza, aveva promesso un volo per Londra per consultazioni, nell’ambito degli incontri preliminari finalizzati alla nascita del Governo provvisorio di unità nazionale.
Gli agenti della polizia politica li avevano invece subito arrestati e portati a Mosca dov’erano stati rinchiusi nel famigerato carcere della Lubjanka. I sovietici rastrellavano ovunque i vertici delle forze democratiche polacche. Neppure i nazisti, durante la durissima occupazione, erano riusciti a piegare la resistenza armata e quella politica come stavano facendo i sovietici.
Dal 18 al 21 giugno si svolgeva quindi quello che nella storia è entrato come il Processo ai Sedici, nella Sala del sindacato a Mosca che aveva fatto da cornice a quelli delle «purghe» degli Anni ’30.
Tutto pilotato, tutto preordinato a tavolino, tutto ignobilmente farsesco, a partire dai capi d’accusa. Gli avvocati difensori dovevano stare bene attenti a non difendere, i testimoni a carico dovevano dire in aula quello che era stato loro inculcato o estorto con interrogatori e torture, quelli a discarico praticamente non esistevano. Era stato concordato pure che se gli imputati si fossero proclamati colpevoli non sarebbero stati condannati a morte, e in effetti quindici di loro lo fecero.
Questo occorreva a Stalin per dimostrare agli alleati inglesi e americani che il processo era «giusto» e che lui era ragionevole e soprattutto generoso nei confronti degli «agenti tedeschi fascisti» che militavano nell’«organizzazione illegale» dell’Esercito nazionale impegnata a «brigare col terrorismo e lo spionaggio per l’aggressione all’Unione Sovietica assieme alla Germania». L’AK, in realtà, era invece l’organizzazione militare legale erede dell’esercito, braccio armato del governo in esilio a Londra, i cui uomini e donne avevano in ogni modo ostacolato e combattuto i tedeschi, avevano raccolto e trasmesso impressionanti e vitali informazioni durante la guerra, si erano ribellati oltre ogni limite nell’epica rivolta di Varsavia del 1944. Il generale Okulicki, nel terzo e ultimo giorno del processo, sfiderà la corte dal banco degli accusati, ribadendo che l’Esercito nazionale era legittimo, che non era contrario all’amicizia russo-polacca ma che allo stesso tempo non poteva essere a favore dell’asservimento all’Urss. Non sapeva, ma poteva immaginarlo, che tutto era già scritto, e che quello era una specie di copione teatrale di argomento paragiuridico. I difensori si erano limitati a chiedere clemenza, i pubblici ministeri chiesero esattamente quello che era stato stabilito, comprese tre assoluzioni, più quella dell’interprete. A dirla tutta, considerati i precedenti, le condanne erano persino lievi, ma anche questo faceva parte di un sottile gioco politico.
Dieci anni di lavori forzati a Okulicki, otto al vicepremier Jankowski, cinque anni ai tre ministri Adam Bien,Stanislaw Jasiukowicz e Antoni Pajdak, da 18 a 4 mesi per i sette capi di partito. Con i Sedici era liquidata l’opposizione alla sovietizzazione della Polonia. Stalin era talmente soddisfatto che si vantò pubblicamente della sua magnanimità tre giorni dopo il verdetto, il 24 giugno, in un ricevimento al Cremlino al quale aveva invitato l’ex premier polacco Stanislaw Mikolajczyk e gli ambasciatori britannico e statunitense Archibald Clark Kerr e Alexander Comstock Kirk. Mikolajczyk si trovava a Mosca dal 17 giugno, su incarico del governo in esilio, per perseguire la strada politica del possibile Governo provvisorio di unità nazionale. Era accaduto tutto sotto ai suoi occhi, l’inganno era palese. Uno Stalin sorridente faceva offrire ai suoi ospiti champagne dell’Ucraina e tartine al caviale, mentre lui si prendeva la Polonia. E con essa l’Europa orientale, su cui era calatala Cortina di ferro. Okulicki morirà in circostanze oscure nel carcere di Butyrka, il 24 dicembre 1946.