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Paul Gauguin, una vita inquieta inseguendo il mito del paradiso perduto

A Roma una mostra ispirata al diario dell’artista scritto dopo il viaggio a Tahiti Racconta la magica Polinesia, tra credenze antiche, simbolismo e spiritualità
di Andrea Camprincoli giovedì 11 settembre 2025

3' di lettura

Mi affacci o sull’orlo dell’abisso. Una terribile smania di ignoto mi fa compiere follie. Quando finalmente gli uomini comprenderanno il senso della parola libertà». Così confidava Paul Gauguin (Parigi 1848 - Hiva Oa 1903) in uno dei suoi diari “Noa Noa”, durante il soggiorno a Tahiti, in cui dipinse le sue opere più potenti che rivoluzionarono per sempre mondo dell’arte. Scriveva «Voglio fare un’arte semplice, correre, perdere il fiato e morire follemente. Che mi importa della gloria? Sono forte, perché faccio ciò che sento dentro di me».
Sentiva la necessità di essere un uomo libero di cercare il senso più profondo della vita e la cercò nella popolazione polinesiana immergendosi nella loro cultura primordiale. Gauguin cercava quella purezza della gioia di vivere, dell’amore, del vigore del corpo e dello spirito che nelle società tecnologiche, oggi come ieri, viene smarrita. Eppure, aveva già conosciuto gli agi della ricchezza di una vita di successo lavorativo.


Era uno stimato agente di borsa a Parigi quando un giorno sentì che quella non era più la vita che voleva. Decise così di diventare un’altra persona, da ricco collezionista d’arte – fu il primo acquirente delle opere di Pissarro – ad artista pittore di un genere nuovo, esotico, misterioso. Quando iniziò a dipingere aveva già cinque figli e una moglie, ma lui sentiva un richiamo insopprimibile che era quello di fare l’artista. Così decise di partire.
 

CON VAN GOGH
«M Prima in Bretagna, poi in Martinica, e ad Arles dal suo amico Van Gogh, nella celebre “Casa Gialla”. «Ad Arles mi sento un estraneo [...] Vincent e io andiamo ben poco d'accordo, in genere, soprattutto quando si tratta di pittura (...) Lui è romantico, io invece sono portato verso uno stato primitivo. Dal punto di vista del colore, lui maneggia la pasta come Monticelli, io detesto fare intrugli». Una convivenza turbolenta, che fu il teatro del celebre gesto disperato di Van Gogh che, in seguito a una lite con Gauguin, si recise il lobo dell’orecchio sinistro. Deluso dal mondo artistico partì per la Polinesia francese a Tahiti. E proprio da lì, da una gigantografia di una natura lussureggiante delle isole di Tahiti, inizia la mostra Gauguin. Il diario di Noa Noa e altre avventure, curata dal professor Vincenzo Sanfo, nelle sale del Museo Storico Nazionale della Fanteria dell’Esercito Italiano a Roma, fino 25 gennaio 2026. L’esposizione, (prodotta da Navigare su iniziativa del Ministero della Difesa), non è solo un percorso artistico, con 165 opere, tra dipinti, disegni, litografie, statue, di van Gogh, Millet, Bernard e altri autori, ma un percorso di vita, che Gauguin ci racconta nei suoi 3 libri, che scrisse nel viaggio tahitiano. In questi libri, presenti in mostra alcune copie originali con disegni di Gauguin e appunti, compaiono ventitré xilografie del Diario di Noa Noa (1893-94), scritto dall’artista durante il suo primo soggiorno nella Polinesia francese e arricchito da sue illustrazioni realizzate con l’antica tecnica dell’incisione su legno, stampate da Daniel de Monfreid. Dal secondo libro Ancien Culte Mahorie (1892) troviamo esposte le sedici litografie a colori e il terzo testo Avant et Après, terminato due mesi prima di morire (1903) e pubblicato postumo, una sorta di manifesto-diario con appunti e considerazioni sull’arte, sui rapporti di amicizia e sui suoi amori. Nucleo centrale della mostra è il celebre dipinto, l’olio su tela Femme de Tahiti (1891) e l’acquerello Paysage Tahitien.

LA DELUSIONE
Opere che segnarono il passaggio esistenziale in cui trovò l’amore puro, innocente di una quasi-bambina polinesiana. Ma ben presto capì i limiti stessi di quel rapporto che tanto cercava. Conobbe la povertà. Tornò in Francia ma ancora un’altra delusione. Fu fervente attivista dei diritti degli indigeni polinesiani quando scrisse: «L’arte o è plagio o è rivoluzione». Voleva preservare i loro culti per conservare quel primitivismo che a poco a poco la civiltà francese stava cancellando. La mostra racconta proprio questo: l’avventura di un uomo che inseguiva i propri miti. Passando dall’illusione del mito del “buon selvaggio” a quello dell’amore ideale, dalle aspirazioni artistiche che nobilitano la vita dell’uomo alla natura primordiale generatrice. Una parabola triste di un uomo alla ricerca di un paradiso perduto, raggiante come i colori brillanti delle sue tele, che trovò solo delusioni. «Il vero viaggio non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi», scriveva Marcel Proust.

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