Viviamo il tempo della tirannia dei diritti, ma alcuni diritti sono più diritti degli altri. Per quanto la frase sia bruttina, piena di ripetizioni com’è, rende bene l’idea. A guardarsi intorno, infatti, sembra che morire quando lo si brama sia una pretesa inalienabile, come se l’eutanasia fosse il più alto traguardo raggiunto dall’umanità. Tuttavia non si pone la stessa enfasi sul diritto alla vita, che pure dovrebbe essere sacro, tanto più che si difende a spada tratta quello all’aborto, raramente, e a prezzo di fischi e boicottaggi, quello del nascituro di venire al mondo. Il diritto a cure sanitarie gratuite è un altro totem, che non mettiamo in discussione, ma vallo a dire a un libertario, che deve pagare le tasse per garantirle ai nullafacenti: sta di fatto che la logica redistributiva della ricchezza è un dogma (tasse e morte, dicono gli americani).
Ci sono insomma prerogative che qualcuno vuol far passare per intoccabili, altre che se provi a sbandierarle parte il coro di accuse di avere una mentalità medievale, come se Tommaso d’Aquino non fosse più importante di qualche filosofo da caffè, di quelli che si sfoggiano come un fiore all’occhiello a certe adunate di partito. Accogliamo quindi con favore l’uscita di un libro che fa un po’ di chiarezza nella babele delle pretese delle minoranze, chiassose e rimostranti a ogni piè sospinto. Un magico mondo in cui il diritto di dirsi donna di chi si imbarca nell’avventurosa odissea della transizione è sacro e inviolabile, invece quello delle donne di sostenere di essere le uniche titolate a dichiararsi tale è scomodo, anzi: a dirlo apertamente si rischia il linciaggio, come dimostra la vicenda della scrittrice J.K. Row ling. Il libro in questione è Il mito dei diritti di Fabrizio Sciacca (Liberlibri, p. 150, € 16), ordinario di Filosofia politica all’università di Catania, e noi gli siamo grati di averlo scritto, perché spiega da dove vengono certe ubbie e quando si è finito di leggerlo si ha ben chiaro che la questione tutta è manipolata da un’orchestra alquanto stonata e molesta.
Innanzitutto, l’idea che l’umanità possa accampare dei diritti è recente. La si trova stampata a chiare lettere nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino stilata dai rivoluzionari francesi e tutti noi, persino i più critici nei confronti degli eccessi dei rivoluzionari, sappiamo di essere loro debitori per il passaggio dallo stato di suddito a quello di cittadino, ovvero dalla condizione di sudditanza a quella di cittadinanza attiva. Ciò non toglie che le persone vivessero, lavorassero e qualche volta si divertissero anche prima. Magari meno, magari di più: chi può dirlo. Ma siccome dietro ai fatti c’è sempre la teoria, la questione è stata affrontata, sezionata ed esposta secondo ragione dai filosofi, o pensatori che dir si voglia, i quali si interrogano da secoli sulla spinosa questione. Interessantissimo è l’apporto degli utilitaristi inglesi, a partire da Jeremy Bentham, per il quale i diritti non sono entità inviolabili, bensì creazioni sociali e politiche, perché l’inviolabilità è «nonsense upon stilts», ovvero un’assurdità sui trampoli.
I diritti sono – dovrebbero essere - funzionali alla conservazione e alla coesione della società: «L’individuo ha diritti in quanto essi concorrono a determinare l’utilità collettiva e il bene comune», spiega Sciacca. A guardare il caos che ci circonda, gonfio di recriminazioni, proteste, violenze verbali – quando va bene - offese gratuite fuori e dentro dai social, si intuisce subito che qualcosa dev’essere andato storto. Risulta insomma evidente quanto la mitologia dei diritti sia stata deformata e stravolta dalla volontà di una parte risibile della società a discapito della maggioranza silenziosa, che si suppone non sia felicissima quando dei manifestanti scesi in piazza per reclamare i propri diritti travolge i suoi, con scioperi selvaggi e aggressioni, come si è visto di recente.
La società è un sofisticato insieme di istanze diverse, molto spesso contrapposte, in cui si sopravvive se c’è tolleranza, ma da parte di tutti verso chicchessia. Nulla di più distante dalla tolleranza a senso unico pretesa oggi, che va a discapito della libertà di opinione. Anche di libertà si parla, infatti, in questo libro, pure quella di esprimere idee, per così dire, fuori moda. Ma è necessario seguire il filo del discorso con attenzione, perché di pensiero si tratta, non di slogan. È un po’ una maieutica del confronto, della riflessione su termini più abusati che usati, nel senso etimologico del termine. E qui si potrebbe aprire un altro discorso, per esempio sul significato della parola discriminazione, meno incriminabile di quanto possa sembrare: bisognerebbe insomma pensarci su con calma. Ci vorrebbero più raziocinio e senso comune, nei rapporti sociali e con le proprie sinapsi, invece sembra di essere sprofondati nel tribalismo. Questo l’autore non lo ha scritto, ma ci si sente davvero in diritto di dirlo, una buona volta.