L’Italia piange la scomparsa di Aimo Moroni, leggendario chef e fondatore dello stellato “Il Luogo di Aimo e Nadia”, uno dei templi più venerati della ristorazione milanese. Se n’è andato all’età di 91 anni, lasciando un’eredità di sapori autentici e una passione incrollabile per la tradizione italiana reinventata. Nato il 27 gennaio 1934 a Pescia, Moroni crebbe in una famiglia modesta: il padre era un carabiniere e la madre cuoca, è lei che lo introdusse fin da piccolo al mondo dei fornelli, trasmettendogli l’amore per i gesti semplici e i profumi della sua Toscana. Da giovane, Aimo si trasferì a Milano, la città che avrebbe adottato come seconda patria. Iniziò la sua avventura professionale come lavapiatti in piccoli locali vicino alla Stazione Centrale, scalando i ranghi con tenacia e un talento innato. Nel 1955 gestì il suo primo modesto ristorante, poi incontrò Nadia Giuntoli, la compagna di una vita intera e di un’impresa epica. Insieme, nel 1962, inaugurarono la Trattoria Toscana da Aimo e Nadia in zona Primaticcio, in una periferia milanese allora ai margini della città, tra capannoni industriali e terreni incolti. Sembrava un azzardo e invece si rivelò una scommessa vincente.
Da semplice trattoria, il locale evolse rapidamente, diventando un punto di riferimento per intenditori e buongustai. Cambiò nome e diventò “Il Luogo di Aimo e Nadia”, arrivato al massimo riconoscimento della doppia stella Michelin. Aimo ai fornelli, Nadia in sala, simbiosi perfetta, un duo che incarnava l’essenza della milanesità autentica. La filosofia di Moroni era rivoluzionaria per l’epoca: in un mondo di mode fugaci e influenze straniere, lui e Nadia anticiparono di decenni i concetti di tipicità, di materie prime di valore, di filosofia slow food. Niente cremosità innaturali, niente sferificazioni, solo piatti che parlavano di radici, con una mano leggera che esaltava i sapori puri. Tra le creazioni iconiche, lo spaghettone al cipollotto fresco, un inno assoluto alla semplicità. Negli anni, “Il Luogo” divenne un crocevia per la cultura gastronomica milanese, un baluardo contro l’omologazione globale. Chef stellati, critici e intellettuali affollavano i tavoli, immersi in un’atmosfera intima, quasi familiare, lontana dal lusso ostentato. Aimo non era solo un cuoco: era un artigiano, un filosofo del gusto. Tra i tanti riconoscimenti ricevuti durante la sua lunga carriera spicca l’Ambrogino d’Oro, conferito dal Comune di Milano nel 2005 per il suo contributo alla città come ambasciatore del gusto e innovatore della tradizione culinaria.
Dopo il ritiro attivo nei primi anni Duemila Aimo affidò le redini del locale a talenti da lui forgiati. Gli chef Fabio Pisani e Alessandro Negrini oggi dirigono la cucina con lo stesso rigore, insieme alla figlia Stefania Moroni, erede diretta, che supervisiona l’operato, garantendo che lo spirito originale non si perda. Il mondo della ristorazione ha reagito con un’onda di tributi. A Massimo Bottura, tre stelle Michelin, che aveva definito la sua cucina «come la bandiera italiana», si aggiunge il cordoglio di Lino Stoppani, presidente della Federazione Italiana Pubblici Esercizi di Confcommercio, che ricorda come Aimo sia stato una «figura di riferimento della ristorazione italiana, insieme alla moglie Nadia ha contribuito a scrivere una delle pagine più alte della nostra cucina». «È stato un pioniere della grande cucina italiana - continua Stoppani -, capace di portare ai massimi livelli una cucina vera, senza artifici, fondata sulla qualità, sul rispetto delle stagioni e sulla misura. Con la moglie ha costruito una storia di milanesità autentica, fatta di sobrietà, rigore e profonda umanità. La sua lezione resterà d'insegnamento per tutti». «Aimo - ricorda infine Cesare Battisti, chef milanese del Ratanà e segretario dell’associazione Ambasciatori del Gusto - è stato un pilastro per tutti noi. Ha incarnato per decenni la cultura gastronomica italiana nel mondo, un grande esempio per la cucina italiana. Ci mancherà molto».