Era lì a languire dal 1966. Da quando Vallecchi l’aveva dato alle stampe per la cura di Enrico Falqui, dopo che Edda Suckert, che di Curzio Malaparte era sorella e sovrintese alla cura del suo lascito dopo che un tumore se lo era portato via, prematuramente, nel 1957, aveva raccolto e riordinato le sue carte. «Una serie di fogli sciolti», scritti per lo più in francese, ci informano i curatori, durante il soggiorno parigino tra il giugno del 1947 e la fine del 1949. Il Giornale di uno straniero a Parigi (a cura di M. Fagotti e M. Zanardo, p. 425, € 25) fa ritorno grazie ad Adelphi, che da anni pubblica i preziosissimi libri di questo geniaccio scomodo: La pelle, Kaputt, Maledetti toscani, Tecnica del colpo di Stato. Capolavori di espressionismo linguistico dai toni visionari, in cui la presa diretta della sua esperienza nel cuore della storia – il fascismo, la guerra, la fine di un mondo- dei quali questo diario sembra essere un contrappunto, è perennemente in un guado, a metà tra l’invenzione creativa e la nuda verità.
Ma stavolta anziché di La pelle parliamo della pelle di Malaparte stesso, che stava sempre dalla parte sbagliata della storia, un po’ come se fosse un programma esistenziale, fin da quando aveva scelto quel nom de plume, così antipatico, così bello. Proprio come lui. Chissà perché nessuno lo scrive mai, quanto era bello Malaparte, e quanto ci teneva a farlo sapere, con quelle foto in cui i suoi occhiacci neri da stregone, ma non malvagio, lampeggiano dei lampi acuti dell’intelligenza. E non per niente nel suo capolavoro ci accompagna, dolente e crudele, nei gironi infernali dell’onta della sconfitta al seguito dell’esercito alleato, in un controcanto della Liberazione che ha fatto storcere il naso a molti.
Kurt Suckert, di madre toscana e padre tedesco, ma italiano fino al midollo – per scelta e vocazione, che è anche peggio – ha fatto parimenti della sua vita un capolavoro. Di cesello quotidiano, andando in guerra, la grande guerra, la prima, partecipando alla marcia su Roma, sostenendo Mussolini per poi ripudiarlo, finendo quindi al confino a Lipari, poi dirigendo la Stampa; vivendo una storia d’amore appassionata con Virginia Bourbon del Monte, la madre di Gianni Agnelli, e infine facendosi inviato di guerra, nella casa di tutti noi, l’Italia, per dirne l’umiliazione e il dolore. È uno che non ti fanno studiare a scuola, Malaparte. Come se non fosse mai esistito, perché era stato fascista ed era inorridito allo scempio di Mussolini e Claretta a Piazzale Loreto. Sta di fatto che con l’ennesima giravolta aveva preso a dichiararsi comunista ed era pure stato a lungo in Cina.
Aveva intervistato Mao e lo aveva addirittura convinto a liberare dei missionari. Ma stiamo andando troppo lontano, ogni volta è così con questo reprobo di razza, perché si ha l’impressione che troppi ignorino che egli è vissuto e ha scritto romanzi straordinari, altroché Beppe Fenoglio. È un gran bel libro anche questo, a sorpresa, perché uno dal titolo si aspetterebbe un Malaparte un po’ meno Malaparte e un po’ più Suckert, che si svela per quello che è, calando la maschera una volta per tutte. E invece no. C’è il passo espressionista dei suoi romanzi in quest’ennesimo racconto di una delusione, fin dall’inizio, in cui descrive un cielo che sembra squarciato dalla “grande Berta”, il mortaio tedesco, e si apre come un foglio di carta che cela al fondo una riga blu, il colore «della carne viva in fondo alla ferita provocata da un bisturi». Era tornato a Parigi per ritrovare quel cielo e la generosità della Francia, che un tempo lo aveva amato. Ma così come era un esule in patria, lo sarebbe stato anche lì, perché nei salotti era considerato fascista: «I fascisti mi detestavano, gli antifascisti mi detestano. È significativo che si interessino così tanto a me, sia gli uni che gli altri».
Può darsi che, con tutte le sue fughe in avanti e l’attitudine a un cinismo che gli faceva scovare la miseria morale dietro la facciata ipocrita degli ideali un tanto al chilo, si fosse davvero fatto troppi nemici, in patria e altrove. Tuttavia non aveva rinunciato alla sua missione dissacrante. Scrive che i francesi non esistono più, sono stati soppiantati dalla «razza europea», che «caccia i popoli antichi» dalle nazioni, è il «prodotto del miglior nutrimento», è più «nervosa, più bella», ma anche «più cinica, più fredda, più diffidente, forse, e forse meno coraggiosa, meno morale nel senso borghese». Le nazioni arretrano, avanza un tipo umano mai esistito prima, l’europeo, che a Malaparte non piace affatto: «i$ sorprendente come questa generazione, che tanto spesso, con tanta insistenza, si richiama alla resistenza, alla scuola del coraggio e di sacrificio che è stata la resistenza, manchi di coraggio e di spirito di sacrificio». Sono quelli che vediamo oggi questi giovani europei, per le strade di ogni città, alti, ben fatti, così simili tra loro, a Berlino, a Parigi o a Milano, irresoluti e confusi, e ci viene da pensare che forse Malaparte uno stregone lo era davvero.