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"Ho visto Banksy in faccia". Prima di morire svela chi è

di Simone Di Meo sabato 6 dicembre 2025

4' di lettura

Napoli perde un’altra voce, e ogni volta è come se il silenzio rimbombasse di più. La morte di Agostino ’o pazzo, al secolo Antonio Mellino, lascia scoperto un angolo di Piazza Gerolomini, nel cuore del centro storico, che sembrava eterno, un pertugio dove il tempo si era fermato tra monete, tele impolverate, statue senza braccia e segreti che lui custodiva con la naturalezza di chi non ha mai creduto di doverli spiegare.

Io ci entravo piano, evitando di sfiorare gli oggetti ammassati come un paesaggio in bilico. Agostino mi guardava, sorrideva appena e ricominciava a raccontare, lasciando che Napoli riaffiorasse nella voce come un ricordo che non voleva farsi malinconia. La parte più sorprendente della sua vita non era il passato da motociclista spericolato, né le corse che avevano fatto impazzire i poliziotti lanciati al suo seguito. Quella era solo la gioventù, materia infiammabile per chiunque nasca con più coraggio che prudenza.

L’INCONTRO DI NOTTE
Il vero nucleo della sua storia era un altro, più segreto, più fragile: il Banksy di Piazza Gerolomini. Il murale della Madonna con la pistola, protetto oggi da un vetro come una reliquia, esiste grazie a lui.
Non per caso, non per fortuna: per presenza. Agostino abitava a dieci metri e una notte vide due ragazzi armeggiare con torce e colori su quella porzione di muro scrostato. Restò a guardarli, poi si avvicinò furtivo, mentre la figura prendeva forma. Non sapeva chi fossero, non sapeva cosa stessero facendo, ma intuì che non era una bravata da cancellare. Quando il sole arrivò, capì che quella immagine aveva un peso diverso. Capì, soprattutto, che andava salvata.


Non c’era internet a spiegarlo, non c’erano turisti a fotografarla. C’era solo lui, la sua testardaggine e quella forma di pietà laica che certi napoletani hanno verso tutto ciò che somiglia alla bellezza. Quando poi un’altra opera di Banksy nei Quartieri Spagnoli fu distrutta da un writer da quattro soldi, Agostino ripeté per mesi che un destino simile non doveva toccare alla sua Madonna. E infatti non accadde.
Ma c’era di più. Un giorno, con la timidezza che si usa per entrare in una vita che non ci appartiene, gli chiesi se avesse mai visto dal vivo Banksy. Lui rise, senza negare. Disse soltanto che uno dei due ragazzi, prima di calarsi il passamontagna, aveva il volto scoperto. Non aggiunse altro. Negli anni provai a strappargli dettagli, nomi, un indizio che fosse uno. Si schermiva. «Non posso», ripeteva. Poi, una mattina, decisi di tentare un’altra strada. Insieme a una collega che adorava i suoi ricordi, lo andai a trovare, aprii Google e gli mostrai alcune foto dei nomi più ricorrenti nelle ipotesi internazionali sull'identità del misterioso artista. Due li scartò con un’occhiata: «Nun so’ loro». Quando gli misi davanti la foto di Robert Del Naja dei Massive Attack, accadde qualcosa. Agostino guardò l’immagine con calma, poi guardò me, poi di nuovo la foto. «È iss», disse. «È lui». Tranquillo.


Certo. Come se ricordare fosse un gesto semplice. Gli chiesi un’intervista. Me la negò. «A Bbc e Cnn ho detto di no. E pure a te dico di no», rispose con quel modo di chi ti vuole bene ma non vuole cedere. Allora provai a proporgli almeno di raccontare la storia senza attribuirgli nulla. Lui ci pensò un attimo. «Quando non ci sarò più, puoi dirlo». È rimasta la frase che mi porto dietro da anni. Non l’ho ripetuta a nessuno, se non alla collega che quel giorno ascoltò ogni parola.

NON SI TRADIVA
Le volte successive, Agostino non tornò più sull’argomento. Mai un’imprudenza, mai una mezza allusione. Era fatto così: non si tradiva e temeva i traditori. Ma perché proprio Del Naja? Forse ricordava male, forse aveva letto cose che gli avevano confuso la memoria. Ma chi lo conosceva sa che non era un uomo da inseguire teorie. Non gli importava il mistero, non gli interessava la fama. Si fidava del suo sguardo. E a lui bastava aver salvato il murale. Più volte mi aveva detto che certe opere valgono solo se qualcuno decide di proteggerle. Altrimenti spariscono come tutto il resto. Negli ultimi anni, quando lo andavo a trovare, parlavamo del passato come si parla delle cose che non torneranno. Un’altra volta mi mostrò due motociclette d’epoca e una macchina antica che voleva cedermi. Io rifiutai, temendo di distruggerle al primo metro e di finire in ospedale. «Mica sono Simone il pazzo», confessai. Lui rise sarcastico, come capitava di rado. La sua morte lascia la piazza scoperta, come se mancasse il suo custode. Dentro quel negozio stipato restano il suo ordinato disordine, le sue ossessioni, il suo pudore, e soprattutto il suo modo lento e ostinato di credere che ogni cosa abbia un valore se qualcuno le vuole bene. Anche un murale apparso in una notte qualsiasi. Anche un volto visto per un secondo prima che calasse il passamontagna. Anche un ricordo che oggi posso a malincuore raccontare, come lui mi aveva autorizzato a fare.

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