Il Corriere della Sera ieri ha pubblicato un lungo articolo in cui si occupa della galassia che fa capo alla Famiglia Angelucci, famiglia che attraverso la Fondazione San Raffaele controlla anche il quotidiano Libero. Nelle prime righe c'è la chiave di lettura: «La famiglia Angelucci - si legge - vuole comperare Il Giornale dalla famiglia Berlusconi, la trattativa sembra in dirittura di arrivo». Notizia interessante, certamente, se non fosse che il resto dell'articolo parla d'altro. Tra un «soldi regolarmente contabilizzati», un «prassi legittima», e un «contributi alla luce del sole» è tutto un adombrare chissà quali misteri nelle attività editoriali del gruppo. Se non parlassimo del Corriere della Sera, a parole - temo solo a parole tempio del liberismo economico, della libera imprenditoria, della libera concorrenza, della correttezza e dell'indipendenza dell'informazione, verrebbe da dire che stile e metodo ricordano molto quello dei pizzini mafiosetti inviati su ordine del boss. Insomma, a essere malevoli uno potrebbe pensare che a Urbano Cairo, editore del Corriere, questa cosa della possibile acquisizione de Il Giornale da parte della famiglia Angelucci proprio non va giù e quindi via con una spruzzata di fango, ovviamente servito nello stile della casa, cioè in guanti bianchi e con un tocco di panna montata.
Dice il Corriere: attenzione, Libero «insieme a un centinaio di altre testate» percepisce contributi pubblici. Notizia vera, ma parziale. La notizia corretta sarebbe: Libero, come del resto il Corriere della Sera, percepisce soldi pubblici. Già, perché il fondo per l'editoria a cui accede Libero non è l'unico finanziamento pubblico a giornali ed editori. Sarebbe giusto informare i contribuenti italiani, quindi anche i lettori del Corriere, che parte delle loro tasse finiscono direttamente nelle tasche di Urbano Cairo attraverso diversi rivoli. Per esempio il Corriere della Sera, come tutti, incassa dallo Stato cinque (tra poco dieci) centesimi di euro per ogni copia venduta. Per non parlare del non marginale contributo che lo Stato gli concede per acquistare la carta. E che dire del prepensionamento pagato con soldi dell'Inps, cioè pubblici, per i non pochi giornalisti che il Corriere ha mandato a casa, per alleggerire i propri organici e quindi i propri conti, dopo soli 25 anni di lavoro? E ancora: rientrano nel computo anche una ventina di milioni che gli enti pubblici mettono a disposizione di Cairo per organizzare ogni anno il Giro d'Italia, che oltre a essere una corsa ciclistica è il business con il quale Rcs sistema il proprio bilancio. Non basta?
Altre milionate pubbliche arrivano al Corriere sotto forma di pubblicità molto, ma molto, generose nei loro confronti di aziende di Stato quali Leonardo, Tirrenia, Cassa depositi e prestiti, Eni, Enel. Vado oltre. Siamo proprio sicuri che Cairo paghi regolarmente rate e interessi del prestito ricevuto da Banca Intesa per scalare il Corriere e diventarne padrone? No perché qui non si parla di questioni tra privati che sarebbero anche affari loro. La banca di cui parliamo è infatti di proprietà delle fondazioni Cariplo e Cassa di risparmio di Torino che come noto sono espressioni delle regioni Lombardia e Piemonte che per questo esprimono la quasi maggioranza dei consiglieri. Non per divagare, ma in quanto presidente del Torino calcio Cairo ha appena goduto del contestato decreto spalma debiti, quello con cui il governo Meloni - regolarmente messo sotto processo nelle trasmissioni della sua La7 - ha permesso alle società di dilazionare i debiti con il fisco salvando la ghirba a lui e ai suoi colleghi presidenti. Insomma, a Cairo e al Corriere della Sera i soldi pubblici proprio non fanno schifo, anzi li arraffano dove possono, sempre con stile e discrezione ovviamente. Ognuno di questi temi meriterebbe di essere approfondito, premesso che per dirla alla Corriere sono tutte «prassi legittime», «alla luce del sole» e «contabilizzate», ma qui non vorrei annoiare il lettore. Diceva Giulio Andreotti: «Io distinguerei le persone morali dai moralisti, perché molti di coloro che parlano di etica, a forza di discuterne non hanno poi il tempo di praticarla».