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Transizione energetica, la strage segreta delle imprese

di Michele Zaccardi martedì 31 gennaio 2023

4' di lettura

Nonostante produca solo l’8% dei gas serra a livello mondiale, l’Ue si è data l’ambizioso obiettivo di diventare il primo continente a emissioni zero entro il 2050. Una scelta che rischia di sbriciolare gran parte dell'industria europea, incalzata dalla concorrenza di Stati Uniti e Cina che si guardano bene dal sacrificare sull’altare dell’ambientalismo le proprie economie. Per il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, il conto per l’Italia «potrebbe superare i 650 miliardi di euro nei prossimi dieci anni. Per quanto importanti siano i fondi che il Pnrr dedica alla transizione energetica, sono solo il 6% del totale necessario. Quasi il 94% lo devono investire le imprese».

Il cuore della strategia europea è il Green New Deal, un insieme di iniziative volte a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Il piano prevede di mobilitare 1.000 miliardi di euro nei prossimi dieci anni, dei quali, però, solo la metà a carico del bilancio Ue. Oltre ai 100 miliardi del Just Transition Fund, destinati a sostenere chi perderà il lavoro, il resto delle risorse sarà a carico dei governi nazionali e dei privati (279 miliardi). Insomma, un fiume di denaro che rischia, però, di risultare insufficiente.

CROCIATA ANTI-DIESEL - Secondo uno studio richiesto dalla Commissione per i problemi economici e monetari del Parlamento Ue, per raggiungere gli obiettivi del piano europeo occorrono infatti investimenti aggiuntivi pari a 250 - 300 miliardi di euro all’anno. Del Green New Deal fa parte poi il famigerato Fit for 55, il pacchetto di interventi che punta a ridurre del 55% (rispetto al livello del 1990) le emissioni di Co2 entro il 2030 e che contiene le due misure simbolo dell’ecologismo da salotto di Bruxelles: il divieto di vendita delle auto a diesel e benzina entro il 2035 e la direttiva, ora all’esame del Parlamento Ue, sulle case green (con un costo a carico dell’Italia di 59 miliardi di euro all’anno secondo l’Ance). Ma il fronte più caldo è senza dubbio quello della transizione energetica, con la necessità di una riconversione industriale su larga scala. La stima più accurata, al momento, è stata realizzata dal Cerved a marzo dell’anno scorso.

In uno studio condotto su 683mila società di capitali, un campione che copre l’80% del fatturato totale delle aziende italiane e 10 milioni di addetti, la banca dati delle camere di commercio evidenzia che 35mila imprese non sono in grado di sostenere i costi per adeguarsi ai diktat europei. In totale, quelle classificate come ad alto (o molto alto) “rischio di transizione” sono 57mila e impiegano 1,3 milioni di dipendenti, con debiti pari a 285 miliardi di euro. Si tratta di imprese attive nei settori più inquinanti: siderurgia, estrazione e lavorazione di combustibili fossili, agricoltura. Per continuare a operare, queste aziende dovranno riconvertire la produzione o ristrutturare gli impianti. Nella classe “a rischio medio” sono catalogate invece 130mila imprese manifatturiere (2,6 milioni di addetti) che, seppur in misura minore, dovranno comunque ridurre il proprio impatto ambientale.

Certo, la transizione dovrebbe anche dare impulso all’economia, soprattutto attraverso un incremento degli investimenti (Cerved stima 20,6 miliardi di euro), che renderebbero meno doloroso il percorso di conversione con la creazione di nuovi posti di lavoro. Il problema è che, mentre alcuni settori prospereranno, altri rischieranno di essere spazzati via dalla concorrenza dei Paesi extra Ue, a cominciare dalla Cina, meno attenta ai problemi ambientali. Questo mentre, di recente, gli Stati Uniti hanno varato l’Inflation Reduction Act, un piano decennale da 738 miliardi di dollari dei quali 391 destinati alla transizione ecologica. Si tratta, in larga parte, di ingenti sussidi a favore delle società americane per promuovere la produzione domestica, sussidi da cui le aziende europee sono escluse. Ma a incidere sull’industria sono anche gli Ets, i certificati di emissione che le imprese devono acquistare per poter produrre.

SCARSITÀ DI RISORSE - Nel 2021, Bruxelles ha varato una stretta che ha diminuito il numero di permessi rilasciati, facendo schizzare i prezzi, passati dai 24 euro alla tonnellata del 2020 agli 80 dell’anno scorso. Non solo. In futuro, la transizione energetica comporterà un maggior utilizzo delle cosiddette terre rare, minerali indispensabili perla realizzazione di impianti rinnovabili, a cominciare dai pannelli solari. «A oggi non c’è una quantità di metalli sufficiente per centrare gli obiettivi di decarbonizzazione» spiega a Libero Gianclaudio Torlizzi, fondatore di T-Commodity, società di consulenza specializzata in materie prime. «Dovremo sventrare mezzo mondo alla ricerca di rame, zinco, cobalto, grafite. Ci sarà un impatto enorme sui prezzi». Senza contare che, in Europa, le terre rare neppure ci sono. «Questo non farà altro che aumentare la nostra dipendenza nei confronti della Cina che, negli ultimi decenni, ha costruito una filiera di approvvigionamento di queste materie prime fondamentali per lo sviluppo dell’energia green» spiega il fondatore di T-Commodity. «Pechino, che controlla inoltre il 95% del processo di raffinazione di metalli e terre rare, utilizzerà la sua leadership mondiale come arma nei nostri confronti, come ha fatto la Russia con il gas». 

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