Altroché «svolta green». I nuovi alimenti per i quali la Commissione europea ha acceso il disco verde all’immissione in commercio possono fare tutto tranne che ridurre l’impronta di carbonio sul clima. Il tema è tornato a far discutere dopo che l’Università di Bergamo ha presentato, venerdì scorso, un’indagine sulla propensione degli italiani ad acquistare e consumare i «novel food». I risultati della ricerca confermano nella sostanza quelle svolte in precedenza. Appena il 9% degli intervistati, dunque mano di uno su dieci, si è dichiarato «altamente propenso» all’acquisto di cibi contenenti farina di insetto, mentre c’è un 70% di persone che non ne avverte la necessità. Ignoro se gli intervistatori abbiano fatto presente agli intervistati il costo elevato della farina di insetti: un chilogrammo di sfarinato essiccato di grilli si paga almeno 40 euro. Un elemento decisivo per orientare la scelta del 21% di indecisi che si dicono «mediamente propensi» a comperare e consumare questo genere di prodotto.
Trovo comunque singolare che alla presentazione dell’indagine, svoltasi venerdì al dipartimento di scienze aziendali dell’Università di Bergamo, vi fossero quasi soltanto esponenti del mondo che punta far diventare l’insect food un grande affare. C’era Steven Barbosa, lobbista dell’Ipiff, International platform of insects for food and feed. E c’era Carlotta Totaro Fila, fondatrice di Alia Insect Farm, specializzzata nell’allevamento di grilli. L’unica voce “fuori dal coro” era quella di Giovanni Malanchini, consigliere della Regione Lombardia, in predicato di assumere la presidenza della Commissione Agricoltura al Pirellone, che interveniva come «rappresentante delle istituzioni». S Alla fine il messaggio uscito dalla presentazione della ricerca è questo: «un italiano su tre - si legge nella nota ufficiale - è propenso ad acquistare alimenti che contengono insetti commestibili». E al 30% si arriva mettendo assieme il 9% di “scalpitanti”, ansiosi di poter mettere nel carrello la farina di grillo, con il 21% di persone «mediamente propense a farlo». Ancora più opinabile la scelta dei ricercatori di classificare tra le «false credenze» il disgusto verso gli insetti. Come se la repulsione a portarli a tavola, che appartiene alla sfera soggettiva, sia di per sé riprovevole. Ho il diritto di provare disgusto per una cavalletta nel piatto. E nessuno può impedirmelo.
«In realtà i dati esposti dall’indagine non mostrano un cambiamento così radicale nei consumatori rispetto al passato», spiega a Libero Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, «e d’altra parte nessuno pensa che i grilli a differenza del cibo sintetico rappresentino una minaccia per il made in Italy a tavola. Non fanno parte della nostra cultura alimentare e ci sta che qualche consumatore alla ricerca di sapori esotici li assaggi. Non è questo che può togliere appealingai nostri prodotti di qualità. Ci sono però due fatti», aggiunge, «per i quali siamo fortemente preoccupati. Innanzitutto non può essere accettata l’assenza di trasparenza. La presenza di prodotti come la farina di grillo dev’essere messa bene in evidenza sui prodotti affinché il consumatore possa scegliere consapevolmente. Non basta elencarla nella lista spesso poco leggibile degli ingredienti. Come non è sufficiente mettere un’indicazione di massima sulla potenziale presenza di allergeni».
IMPATTO RILEVANTE
Ma se queste sono le precauzioni d’uso minime dettate dal buon senso, c’è una dimensione politica dei novel food. «In effetti è falso che sia questa la strada per salvare l’ambiente e il clima», puntualizza Scordamaglia: «oggi i grilli vengono considerati una curiosità, hanno sistemi di produzione artigianali e perfino nei Paesi dove fanno parte della cultura alimentare, vengono mangiati saltuariamente. Se invece qualcuno vuole sostenere che attraverso i grilli si possa sfamare a basso impatto ambientale nove miliardi di persone dice il falso. Per farlo bisognerebbe passare a una produzione intensiva. E secondo l’Università di Davis la produzione di carattere intensivo porterebbe a una serie di conseguenze. In primo luogo il massiccio impiego di antibiotici necessari per evitare una serie di patologie di origine batterica che questi animali, allevati in maniera intensiva, potrebbero sviluppare. Antibiotici vietati nelle produzioni zootecniche tradizionali. In secondo luogo», conclude il numero uno di Filiera Italia, «se volessimo allevare i grilli nel nostro Paese dovremmo impiegare tantissima energia per creare condizioni artificiali di temperatura e umidità che non ci sono normalmente. Terza considerazione: l’unico modo perché questi animali abbiano un indice di conversione proteica conveniente, vale a dire il rapporto fra quel che mangiano e le proteine che sviluppano, sarebbe alimentarli con la soia o altri cereali simili. Ma così si perderebbe il valore di economia circolare».