Gian Carlo Blangiardo
«Oggi si ricerca un figlio “più di qualità”, per usare un’espressione che può suonare impropria. Voglio dire che magari una famiglia ne ha di meno, ma dedica più tempo, e soprattutto più risorse, al loro allevamento e alla loro educazione rispetto a quanto succedeva diversi anni fa». Gian Carlo Blangiardo è uno di quei professionisti seri, competenti e precisi che ce ne sono pochi. È un professore emerito di Demografia all’università Bicocca di Milano e questi aspetti (il tasso di natalità che diminuisce, la crisi demografica, l’invecchiamento della popolazione) li conosce a menadito. «Ovviamente, in termini affettivi, un figlio è sempre una risorsa per i suoi genitori, lo era anche prima. Però oggi rappresenta più “un costo” e non un’ipotesi di “ricavo” come poteva essere cinquanta o sessant’anni fa».
Professor Blangiardo, ci faccia capire. Sessant’anni fa la società era completamente diversa. Molte famiglie vivevano di agricoltura, era necessario avere “forza lavoro” per mantenersi. È per questo che si facevano più figli?
«Sicuramente un discorso del genere è corretto. Le esigenze erano quelle. Però tenga conto che c’era anche un tasso di mortalità infantile maggiore».
Cioè?
«Adesso è intorno al due, al tre per mille. Una volta toccava addirittura il settanta per mille. Significa che quasi un bambino su dieci moriva, purtroppo. E le famiglie sapevano che c’era una sorta di “pericolo” strada facendo. Una società rurale, per sopravvivere, doveva avere più risorse possibili».
Oggi, invece?
«Col passaggio alla società industriale e post-industriale il quadro è mutato notevolmente. Le cause che possono spiegare il calo demografico sono il fatto che i figli rappresentano un costo di tempo, denaro e anche di organizzazione della vita».
Però facciamo meno figli e li facciamo a età più avanzate. Sempre più spesso si mette al primo posto la carriera, il lavoro. Poi, magari, si sente il desiderio di maternità, o di paternità, quando si ha già 35, 36 anni. È vero?
«Succede, sì. Si è spostata avanti la fascia temporale. E questo implica che possono esserci delle difficoltà biologiche, fisiche, nella riproduzione e non solo. Se hai il primo figlio a 35 anni, è difficile che ne fai un altro. Ti fermi lì. Molte coppie si accontentano. “Siamo genitori anche così”, cosa che è pur verissima. Ma non si spingono oltre».
Non va ovunque in questo modo. La Francia ha una natalità molto più alta della nostra. Dipende dalla storia francese in fatto di immigrazione, che ha radici molto più antiche?
«No. O meglio, non solo. Il tema immigrazione incide in minima parte. I francesi hanno una cultura della natalità molto più attenta della nostra. Hanno una serie di aiuti, tanto per cominciare. Banalmente pagano meno tasse, hanno forme di assistenza più precise. Insomma, è più facile avere un bambino a Parigi che a Roma. Per questo le loro natalità annue sono sopra le 700mila unità, un dato che è praticamente il doppio del nostro».
Cosa si può fare per invertire la rotta perché il rischio, qui, è quello di scomparire. O siamo troppo catastrofisti?
«L’Istat ha stimato che entro il 2070 la popolazione italiana, se non si fa qualcosa, scenderà di undici milioni di abitanti. Continueremo a essere un grande Paese, perché non è solo il numero dei suoi uffici anagrafici che fa un grande Paese, ma andremmo incontro a una riduzione».
C’è una ricetta per scongiurarlo?
«Siamo davanti a un malato di cui si conosce la diagnosi e, in un certo senso, anche la terapia. Serve un’attenzione maggiore a questi fenomeni, e devo dire che nell’ultimo periodo c’è stata. Però non basta un solo intervento. L’assegno universale è stato un ottimo rimedio, ma bisogna continuare con gli asili, coi servizi. Non c’è solo lo Stato, c’è anche il welfare aziendale che può dare una mano».