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Vittorio Feltri, il racconto: meglio essere abbandonati che abortiti

di Vittorio Feltri sabato 15 aprile 2023

4' di lettura

In questi giorni non c’è giornale, incluso il nostro, che non pubblichi articolesse dedicate a Enea, il bambino la cui mamma, appena partorito, ha lasciato in ospedale giacché impossibilitata ad allevarlo. Ieri un altro neonato ha subìto lo stesso trattamento, la genitrice che non vuole ovviamente essere nominata si è eclissata e il suo esserino sarà affidato e poi adottato da una famiglia idonea. In tutto questo non dovrebbe esserci nulla di straordinario, invece la stampa se ne sta occupando con un’enfasi francamente incomprensibile. Non riesco a capirne il motivo.

Non passa dì senza che qualche donna abortisca e nessuno se ne preoccupa, anzi l’interruzione volontaria della gravidanza non è più un evento straordinario e neppure doloroso. Nella nostra società si tratta di un diritto inalienabile e coloro che sono ostili a simile pratica violenta, giudicandola un infanticidio, sono giudicati retrogradi, addirittura cattofascisti. Ci si scandalizza se una ragazza madre, non essendo in grado di provvedere al frutto del suo ventre, lo abbandona consapevole che crescerà meglio in una casa dotata di ogni comfort, ma si rimane indifferenti davanti a migliaia di aborti. È una stridente contraddizione.

Sono consapevole che i due bebè in questione non faranno una brutta fine, ma otterranno tutte le attenzioni e cure dalle persone che avranno il privilegio di ospitarli e di farli diventare grandi come fossero figli loro, naturali. Le adozioni non sono una novità di questi tempi, hanno una tradizione vecchia quanto il mondo. Ne so qualcosa e vi racconto perché.

Quando avevo venti anni circa vinsi un concorso pubblico per accedere alla Amministrazione provinciale di Bergamo, la mia città natale. E fui destinato alla segreteria di un ente che si chiamava Ipami, cioè il Brefotrofio, che in pratica era un gigantesco asilo nido che raccoglieva le future mamme nubili le quali all’epoca erano equiparate alle prostitute, quindi non potevano vivere nel consorzio civile ma dovevano essere protette in un luogo apposito, isolato. Non era un ghetto, bensì simile a un hotel dove le signorine attendevano in un ambiente confortevole il momento di dare alla luce il loro erede, si fa per dire.

C’era una mensa dove una monaca, suor Giovanna, cucinava prelibatezze molto gradite alle ospiti, che indossavano un grembiule a strisce bianche e blu. Allorché una di esse partoriva, poteva accudire al suo bambino nel migliore dei modi, usufruendo dei servizi perfetti del brefotrofio. Trascorsi sei mesi, scattava il momento delle decisioni fatali. Portarsi a casa il fanciullino o dimenticarlo? La metà delle mamme, dopo essersi rappacificata con i familiari, usciva dall’istituto portandosi appresso l’infante, l’altra metà, irrisolte le difficoltà ambientali, era costretta a salutare per sempre la creatura, che in seguito, grazie al lavoro delle assistenti sociali, veniva adottata da coniugi che desideravano una prole che la natura aveva negato loro per vie naturali.

Va da sé che i piccini abbandonati erano coccolati dalle infermiere e dalle puericultrici, tutta gente che si inteneriva davanti alle culle. I bimbi erano curatissimi, addirittura vezzeggiati. Erano belli, in salute e sempre sorridenti. Sembravano nostri figli e come tali li trattavamo. Io avevo un ruolo amministrativo, ai nuovi nati davo un nome e un cognome. Non li chiamavo né Esposito né Diotallevi come usava all’epoca, affibbiavo loro cognomi diffusi nella Bergamasca per evitare che fossero bollati per sempre quali bimbi di nessuno: Belotti, Finazzi eccetera.

Ero già sposato poiché avevo ingravidato una mia coetanea che ebbe due gemelle, dopo di che le venne la cattiva idea di morire. Vedovo e padre giovanissimo non sapevo come fare. Scelsi di portare la mia prole al Brefotrofio, dove fu accolta con grazia e allevata con amore. Mi risposai di lì a un anno circa con una maestrina conosciuta nell’istituto dove ero impiegato. Con la quale convivo da 55 anni e dalla quale ho avuto altri due pistolini, un maschio e un’altra femmina. Nel frattempo cambiai mestiere, ma l’Ipami e i suoi piccoli mi sono rimasti nel cuore. È passato più di mezzo secolo dall’esperienza che ho narrato, però ancora oggi ripenso con tenerezza al periodo in cui mi occupavo di bambini esposti all’abbandono e che noi non abbandonavamo mai finché non avessero trovato una coppia che li accogliesse con entusiasmo. Recentemente il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, un amico, ha disposto di deporre una lapide sul cancello di ingresso al dismesso Brefotrofio per ricordare che quell’ente salvò con il mio insignificante contributo 5000 figli di nessuno. Presenziai alla cerimonia cui parteciparono molte persone che si svezzarono nel nostro istituto. Alcune le riconobbi e le abbracciai, una cerimonia commovente che non dimenticherò mai, come non ho dimenticato i piccoli con i quali vissi un paio di anni. Devo confessare che era molto meglio il Brefotrofio delle attuali macellerie dove si pratica l’aborto. Se una donna abbandona il pargolo, ha tutta la mia inutile solidarietà.

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