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Renzi e Calenda, le ultime vittime del "centrismo"

di Claudio Brigliadori sabato 15 aprile 2023

8' di lettura

Da aspiranti centristi a centrini bucati (e bruciati). Matteo Renzi e Carlo Calenda si aggiungono alla lista ormai infinita di fallimenti che negli ultimi tre decenni, da quando cioè è sparita Mamma Democrazia Cristiana, ha visto per protagonisti leader stagionati, cavallini rampanti, carneadi vari. Tutti accomunati da un unico peccato capitale: il considerarsi i mejo furbetti del quartierino, politicamente parlando. Puntare al centro per poter condizionare (e in alcuni casi ricattare) i partitoni e le coalizione di centrodestra e centrosinistra che si sono alternate al potere. Marginali in Parlamento, ma decisivi sulla carta per la vita o la morte del governo. A volte, almeno per pochi mesi, è andata bene. Ma nella maggior parte dei casi l'illusione si è schiantata contro l'inesorabile scoglio delle urne.

HA RAGIONE GASPARRI
Significativo che a riassumere al meglio la surreale vicenda del Terzo Polo sia Maurizio Gasparri, nato politicamente a destra, nel Msi, e convinto da Silvio Berlusconi a restare in Forza Italia dopo la parentesi del Pdl. "Con Renzi e Calenda si registra il 182º tentativo fallito di costituire il nuovo partito fantasmagorico del centro moderato che conquisterà consensi a destra e a sinistra, e governerà l'Italia per millenni. Ho, in uno scaffale enorme, l'elenco dei precedenti disastri. In realtà l'area dei moderati è presente e attiva all'interno del centrodestra con Forza Italia, intorno a Berlusconi che ha voluto e ha fondato il fronte dei moderati. Tutti gli altri, a iniziare da quelli che l'hanno abbandonato, sono andati incontro a clamorosi fallimenti". Difficile contestarlo, anche se la tentazione del "moderatismo" ha spesso mietuto vittime anche a sinistra, proprio perché in genere a guidare le manovre erano gli ego ipertrofici di capetti dalla spiccata indole situazionista. 

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IL POVERO MARIOTTO
Il primo moderato a venire frantumato, in quel caso dal debuttante Cavaliere nel 1994, è il povero Mariotto Segni. Uscito dalla Dc, è il volto nuovo e pulito post Tangentopoli che sulla carta dovrebbe portare in dote ai suoi sostenitori la fetta grossa dell'elettorato cattolico. Poco carismatico (e bocciato dallo stesso Berlusconi, che si decide a scendere in campo personalmente per sbarrare la strada al Pds di Occhetto stra-favorito proprio dopo averlo incontrato di persona), gode del credito come promotore della vittoriosa battaglia sul referendum abrogativo del 1991. Quindi la corsa solitaria con Alleanza democratica e infine la candidatura con il Patto Segni. Sembra tutto apparecchiato per portarlo a Palazzo Chigi, ma la rivoluzione Forza Italia travolge anche lui. Una lezione da tramandare ai posteri, che però saranno sempre sordi: un moderato può vincere, ma solo se alleato con la destra e la sinistra. La Prima Repubblica è finita, l'Italia ha un assetto maggioritario con vocazione proporzionale e alla fine nessun campanile, da solo, può spuntarla. 

L'ECCEZIONE PRODI
Lo capisce per primo Romano Prodi. Cattolicissimo, democristianissimo. Insieme a Berlusconi (che a sinistra dipingono fin da subito come un novello Mussolini, come sempre sbagliando drammaticamente la lettura), è l'unico vero politico "centrista" a fare il botto, proprio perché si rifiuta di stare al centro da solo. E' il "papa straniero" che permette alla sinistra ex comunista di finire al governo per la prima volta e per questo nessuno, nei salotti buoni, oserà mai accusarlo di essere un vecchio Dc. Ironia della sorte, ma non troppo: dopo essere stato impallinato da Rifondazione comunista nel 1997, nel suo primo governo, verrà fregato da Clemente Mastella 10 anni dopo, al suo secondo tentativo da premier. Mastella che, da ultimo democristiano e un po' mina vagante, capace di fare l'occhiolino sia al Cav sia a D'Alema e compagni, è insieme a Pier Ferdinando Casini l'unico centrista a restare eternamente a galla. Clemente riducendosi a influentissimo "capobastone" locale in Campania, inaffondabile (come è stato fino all'ultimo l'inimitabile Ciriaco De Mita), Pierferdy accettando di buon grado di essere subalterno al Pd, abbandonando ogni velleità di leader elettorale. Alla fine hanno avuto ragione loro.

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PREGHIERE E MANETTE
Tutti gli altri, "delfini" o "eredi", hanno sempre peccato di ubris. Nel 2001 i democratici di sinistra puntano su Francesco Rutelli per restare al governo. Ex radicale misteriosamente traslocato al centro, doveva essere un Prodi-bis ma ha finito per diventare l'alter-ego di Corrado Guzzanti, che di lui faceva una straordinaria imitazione stile Alberto Sordi. "Il Pese non è ne di destra, ne di sinistra. È di Berlusconi!", ripeteva in un memorabile sketch. Nell'eterna lotta tra i due poli, la sbornia "centrista" ha contagiato persino un manettaro incallito come Tonino Di Pietro, l'ex toga di Mani Pulite che aveva affascinato Berlusconi salvo poi trasformarsi nella sua nemesi. Di moderato aveva ben poco: le radici cattoliche, da contadino molisano. Stop. La sua furia giustizialista bagnata di populismo anti-berlusconiano aveva conquistato, che caso, i progressisti. Ma la sua Italia dei Valori ha avuto vita breve e lui, eroe popolare, è caduto presto nel dimenticatoio. Unica eredità, si fa per dire: l'ispirazione data a Beppe Grillo per fondare il Movimento 5 Stelle. Alla faccia del "moderatismo".

IL FLOP MONTI
Il moderato fallito per eccellenza resta e resterà Mario Monti, la cui avventura politica funesta vive sull'equivoco del "professore". In quanto "tecnico", viene classificato come centrista. In realtà la sua collocazione filosofica euro-centrica e burocratica lo piazza a sinistra, mentre l'impostazione economica lo vedrebbe meglio a destra. Arrivato come salvatore della patria a fine 2011 per sostituire Berlusconi, dopo le prime settimane di luna di miele si fa fregare dai disastri dei suoi ministri (Elsa Fornero in testa), dalla poca "empaticità" mediatica, l'algida aura vagamente teutonica. E dalla miopia strategica che lo vede fondare un suo partito, Scelta civica, nel momento in cui il centrodestra lo fa cadere. Sembra una vendetta, anche perché si allea con Gianfranco Fini, l'uomo che pochi mesi prima aveva cercato di dare una spallata proprio al Cav. Finirà malissimo, per entrambi. 

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FINI, DELFINO AFFONDATO
Proprio Fini apre il capitolo, lunghissimo, dei fidatissimi uomini di Berlusconi che hanno deciso di mettersi in proprio, condannandosi alla damnatio memoriae degli elettori. L'ex leader di Msi e An, in realtà, era entrato nel Pdl obtorto collo dopo il discorso del Predellino del Cav. Insieme hanno vinto elezioni e governato, in un rapporto sempre sottilmente concorrenziale. Destra contro centro. Nel 2010 crede sia arrivato il suo momento, da presidente della Camera critica il Cav e ne nasce il mitologico "che fai mi cacci?". Esce dal partito unico con un manipolo di ex missini, fonda Futuro e libertà, si allea con Monti: un anti-berlusconiano accolto a braccia aperte, a parole, dalla sinistra. In poche righe, il manuale del perfetto suicidio politico. Disastro alle elezioni del 2013 e fine prematura di carriera per un personaggio che, al di là di Tulliani e casa di Montecarlo, molti vedevano già alla guida del paese. 

LA DELUSIONE ALFANO 
Pochi mesi dopo, tocca ad Angelino Alfano. Era il numero 2 di Forza Italia, enfant prodige dei conservatori, in rampa di lancio. Forse ingolosito dal feeling con Enrico Letta, premier nel pantano, decide di restare nel governo di "unità nazionale" anche quando il Cav, appena buttato fuori dal Senato per effetto della legge Severino, ne esce. Un tradimento umano, prima che politico, anche agli occhi di chi dovrebbe votarlo. Sfida Berlusconi fondando il "Nuovo centrodestra", nome assai pomposo per un progetto che racimola le briciole. Lo cambia con "Alternativa popolare" ma verrà spazzato via definitivamente in concomitanza con la crisi di Matteo Renzi. Silvio ricorderà sempre con grande amarezza quei giorni, e non è un caso che negli anni successivi abbia sempre cercato un suo possibile erede all'interno del partito, o fuori, ma sempre con lo stesso pedigree. Giovane (almeno politicamente), trasparente, "nuovo". Dal manager Stefano Parisi al giornalista Giovanni Toti, fino al sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. Questi ultimi due hanno anche fondato un partito, "Noi moderati". Appunto. Sono al governo, ma ancora all'ombra del Cav dal quale avevano preso le distanze. 

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IL TRAMONTO DI RENZI
Per molti critici, anche Renzi è uno dei "delfini mancati" di Silvio. Cresciuto negli scout, ambiente cattolico, estraneo alla filiera Pci-Pds-Ds (era con la Margherita, la gamba centristra dei progressisti), l'ex sindaco di Firenze è sempre stato considerato una serpe in seno dai dem, anche e soprattutto una volta diventato prima segretario e poi premier, pugnalando Letta. Dei democristiani eredità la scaltrezza, il fiuto, l'abilità tattica e strategica. Ma coi centristi ha ben poco in comune per quanto riguarda la sfrontatezza mediatica e umana. Attaccante di sfondamento, moderato a parole ma Bulldozer nei fatti, ha tentato la carta del centro pensando che con le elezioni del 2018 e l'ondata populista di Lega e 5 Stelle, si aprisse per lui una corsia preferenziale nel vuoto creatosi tra i tre poli. Da qui l'addio al Pd e la nascita di Italia Viva. L'alleanza con Calenda, mosso come lui dall'alta stima di sé, è stata necessaria per non uscire dal Parlamento, ma la sua natura onnivora lo vede già impegnato su altri fronti, da conferenziere a direttore del Riformista. Certamente convinto di poter tornare sulla scena quando le acque si saranno calmate. Calenda invece resta appeso agli eventi: tornare con il Pd o attendere che Mario Draghi, altra icona dei centristi mai suffragata dal voto popolare, si riaffacci in qualche modo dai palazzi del potere romani. Destino gramo, ma forse il suo essere sostanzialmente "vergine" lo preserverà ancora per un po' dalla fine di Luigi Di Maio

DI MAIO, UN ANTI-CAPOLAVORO
Insieme a Grillo e Dibba, agitava la forca tra 2013 e 2018. Nel 2018 apre la scatoletta di tonno del Parlamento a suo modo, entrando nel governo con Salvini. Dice cose di sinistra ma le maschera bene. Sceglie Giuseppe Conte, altro uomo di sinistra che finge di essere super partes per farsi sostenere dalla destra, poi capendo che la sua creatura lo sta superando in popolarità decide di salire sul carro di SuperMario. Lascia il Movimento e fonda Impegno civico, partitino personale pieno di grillini che si allea con il Pd (e con chi sennò?) confidando semplicemente di trovare il paracadute per restare onorevole. Il 25 settembre, il disastro mentre Conte, assai più lungimirante, tiene in piedi la baracca riciclandosi come pasionario alla Melenchon. Perché alla fine, finisce sempre così: se stai al centro, muori. "C'è una fetta di moderati che non si identifica con nessuno - ricordava qualche sera fa Massimo Cacciari a Otto e mezzo, su La7 -, il 50% degli aventi diritto non va a votare. Non si identifica? E te credo... E' ridicolo, quelli che non vanno a votare votano il meno peggio o che ritengono il meno peggio, all'80 o 90 per cento. Il 50% non va a votare addirittura, cosa andiamo in cerca? Di qualcuno che in Italia sia veramente rappresentativo? Rappresentativo de che?".

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