Lo scorso luglio il debito pubblico arrivò alla bellezza di 2.770 miliardi. Un livello mai visto prima. Ma allora a Palazzo Chigi c’era, seppure dimissionario, Mario Draghi. E nessuno alzò un sopracciglio. Più o meno lo stesso è accaduto ad ottobre, con il nuovo governo appena insediato. Il rosso dello Stato è schizzato a 2.771 miliardi. Altro record. Tutti zitti. Staremo a vedere cosa succederà ora, dopo che Bankitalia ha certificato l’ennesimo primato negativo del nostro debito, raggiunto a febbraio con 2.772 euro. Una cifra molto vicina ai picchi dello scorso anno, epperò in crescita di ben 21,6 miliardi rispetto a gennaio, quando il rosso si era fermato a 2.756 miliardi.
Per carità, poca roba rispetto ad una montagna di soldi che rappresenta oltre il 140% del nostro Pil e che tra pandemia, guerra e crisi energetica negli ultimi anni ha continuato a lievitare (in termini assoluti) senza sosta. Basti pensare che nel solo 2022 la crescita è stata di oltre 84 miliardi. Ma il record toccato a febbraio è comunque l’indice delle difficoltà con cui il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, dovrà fare i conti nei prossimi mesi. Anche perché nel Def appena licenziato dal governo si prevede che il rosso scenderà dal 144,7% del 2022 al 142,1% del Pil quest’anno, al 141,4 il prossimo, fino a raggiungere il 140,9% nel 2025. Missione che, va detto, il Fondo monetario internazionale non ritiene impossibile. Anzi, secondo l’Fmi quest’anno il debito calerà addirittura fino al 140,3% per arrivare al 131,9% nel 2028.
OTTIMISMO
Ottimismo, una volta tanto, che dà speranza. Resta però da capire da dove siano spuntati questi 21 miliardi in più a febbraio. Il comunicato di Bankitalia, da questo punto di vista, non aiuta molto. Si limita a spiegare che 12,9 miliardi sono dovuti al fabbisogno e altri 8,6 miliardi all’incremento delle disponibilità liquide. Sottolineando che l’aumento è tutto attribuibile al rosso delle amministrazioni centrali, essendo rimasto pressoché invariato quelle degli enti di previdenza e delle amministrazioni locali. La realtà è che ci sono diversi fattori che hanno contribuito alla crescita del Pil. Non ultimo l’andamento dell’economia. La frenata registrata nel primo trimestre (ieri Confcommercio ha stimato una crescita zero da gennaio a marzo) ha prodotto una contrazione delle entrate, che secondo Bankitalia è stata del 3%, pari a 1,1 miliardi rispetto allo scorso anno. Ma questo non basta a spiegare l’impennata. A pesare c’è sicuramente il superbonus.
Una botta da circa 80 miliardi che, come ha spiegato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giovanbattista Fazzolari, «peggiora il debito pubblico del 2023 e delle annualità successive». L’altro fattore che fa la differenza, e che purtroppo non sembra ancora avviato verso una fase discendente, è rappresentato dai tassi di interesse imposti dalla Bce, che Se la spesa per interessi sul debito quest'anno calerà per la flessione dell’inflazione, per il prossimo triennio, al contrario, è prevista in aumento al 4,1% del Pil nel 2024, 4,2% nel 2025 e 4,5% nel 2026. E questo proprio a causa delle quote crescenti dello stock di debito pubblico che avranno recepito i tassi più elevati. La medicina migliore, ovviamente, è la crescita. Tema su cui Giorgetti ieri è intervenuto da Washington. «L’economia reale italiana», ha detto a margine delle riunioni con l’Fmi, ha una capacità impareggiabile di affrontare le sfide. Se riusciamo a riattivare lo spirito imprenditoriale italiano diventa più semplice immaginare una crescita maggiore». In uno scenario complesso c’è comunque una notizia positiva. Il piano del governo per riportare in patria quote sempre maggiori di debito pubblico (e mettere di conseguenza il Paese più al riparo dagli attacchi speculativi dei mercati finanziari) sta portando i suoi frutti. La paura dell’inflazione e la fiducia nell’esecutivo hanno fatto registrate raccolte record delle ultime emissioni dei Btp. I risultati si leggono nei dati snocciolati da Bankitalia, secondo cui la quota di titoli di Stato in mano ad investitori esteri è scesa dal 27,6% di dicembre al 26,94% di gennaio, per un controvalore di 614,940 miliardi. È il livello più basso dal settembre del 2012.