In effetti fu una trattativa. Un tentativo, almeno. Tra il 1992 e il 1993 lo Stato era allo stremo: l’economia a rotoli, i politici insultati per strada, le inchieste, gli attentati e quello stragismo che peraltro era solo all’inizio. «Vorrei fare un punto, sennò non si capiscono le cose», dirà il generale Mario Mori qualche anno dopo, durante un’udienza a Firenze: «Non eravamo nel 1998, come oggi; l’Italia era quasi in ginocchio, perché erano morti i due migliori magistrati nella lotta alla criminalità mafiosa, non riuscivamo a fare nulla, dal punto di vista investigativo eravamo allo sbando... Cinque anni sembrano pochi... solo cinque anni son passati. Eppure oggi è cambiato completamente tutto».
All’inizio dell’estate, il capitano dei Ros Giuseppe De Donno aveva incontrato in aereo il giovane Massimo Ciancimino, figlio di Vito, il sindaco del «sacco di Palermo» e della speculazione edilizia degli anni Sessanta, già definito come «il più mafioso dei politici e il più politico dei mafiosi». Era un personaggio nato a Corleone, aveva tutta una sua storia. De Donno e Massimo Ciancimino si erano conosciuti negli anni Ottanta durante un processo contro Vito. Al capitano venne una mezza idea e la comunicò al suo superiore, Mario Mori: provare a parlare con Vito Ciancimino, che era in libertà ma doveva ancora scontare un residuo di pena; magari farci una chiacchierata così, informale, provare pure questa per tentare di strappare qualche informazione nel caos generale, dei dettagli utili per catturare qualche boss, chissà. Pur scettico – atteggiamento che manterrà a lungo – Mori accettò. Ma all’incontro, sempre che Ciancimino l’avesse accettato, doveva esserci anche lui, che era il capo, o un capo: e solo con un capo Ciancimino avrebbe accettato di parlare. Erano codici mafiosi, ma non solo. Nell’insieme, era un qualsiasi spunto d’indagine odi assunzione d’informazioni che tuttavia per un trentennio sarà definito inizio di una «trattativa» che in realtà non vi fu.
QUEL GIUGNO
’92 Peraltro fu lo stesso Mori, parlando con i giudici nel 1998, a utilizzare per primo l’espressione «trattativa»: «De Donno mi propose di tentare un avvicinamento con Vito Ciancimino, che in quel momento era libero ed era residente a Roma. Lo autorizzai...avviene tra Capaci e via D’Amelio. Quindi diciamo nel giugno del ’92... Ciancimino accettò il colloquio... mostrava delle aperture. Io accettai con perplessità. Lo incontro per la prima volta a casa sua, che è dietro piazza di Spagna, nel pomeriggio del 5 agosto del 1992... Il secondo incontro avviene il 29 di agosto... lui sapeva che prima o dopo doveva rientrare in carcere: noi speravamo che questo lo inducesse a qualche apertura, che ci desse qualche input... fece una proposta un po’ singolare a De Donno, “potrei fare l’infiltrato, inserirmi nel mondo degli appalti”... Noi sfruttammo questo input, in quel momento io cominciai a parlare con lui: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato... Ma non si può parlare con questa gente”».
Intendeva Cosa nostra, ovviamente. Ancora Mori: «La buttai lì, e lui “Ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo”. E allora dissi: “Allora provi”. E finì così il secondo incontro... Disse: “Io ho preso contatto, tramite intermediario», che non disse mai chi fosse (era Antonio Cinà, il medico di Totò Riina, ndr.). Allora disse: «Ho preso contatto con questi signori qua, ma loro sono scettici, perché voi che volete, che rappresentate?”. Noi non rappresentavamo nulla, se non degli ufficiali di Polizia Giudiziaria che cercavano di catturare qualche latitante, come mini■ Il processo sulla trattativa Stato -mafia si apre il 27 maggio 2013. Imputati i capimafia Riina e Provenzano, gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, i senatori Marcello Dell'Utri e Calogero Mannino, con l’accusa di attentato a un corpo politico, l’ex ministro Mancino per falsa testimonianza. Nel 2018 Mori, Subranni e Dell’Utri sono condannati a 12 anni, Mancino è assolto mo. Ma certo non gli potevo dire che rappresentavo solo me stesso... Allora gli dissi: “Lei non si preoccupi, lei vada avanti”. Restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa».
Vito Ciancimino, parentesi, ha confermato il racconto di Mori ai magistrati di Palermo Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia e, dettaglio, pare che sia stata la postura sussiegosa e iattante di Mori a convincerlo che facesse sul serio: «Per assumere quell’atteggiamento arrogante dovevano essere pazzi o avere le spalle ben coperte». Mori sulle spalle aveva solo le sue mostrine da colonnello, e contava di avere tutto il tempo per predisporre magari un pedinamento ben fatto che consentisse di vedere chi Ciancimino contattava, se lo contattava, e dove. L’ha raccontato lui, ma Ciancimino bruciò i tempi durante il quarto incontro del 18 ottobre: «Ciancimino, con mia somma sorpresa, mi disse: “Quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l’intermediario sono io e che la trattativa si svolga all’estero. Voi che offrite in cambio?”. A questo punto capii che non si poteva più allungare il brodo, perché sapevo benissimo che Ciancimino aveva il passaporto ritirato e che questa manovra della trattativa svolta all’estero... era un escamotage... lui voleva uscire e mettersi in condizione di sicurezza. E allora dissi: “Be’, noi offriamo questo: i vari Riina, Provenzano e soci si costituiscono e lo Stato trattera bene loro e le loro famiglie».
A questo punto Ciancimino si imbestialì veramente... Era seduto, sbattè le mani sulle ginocchia, balzò in piedi e disse: “Lei mi vuole morto, anzi, vuole morire anche lei, io questo discorso non lo posso fare a nessuno”... Molto seccamente mi accompagnò alla porta... Scendendo le scale De Donno disse: “Be’, è andata male, ma d’altra parte che potevamo fare?”. E io risposi “Mah, non è andata male, perché intanto abbiamo raggiunto un punto: che questo qui veramente ha preso il contatto, perché sennò questa reazione e questa paura non ci sarebbero state, primo. Secondo: la sua posizione giudiziaria è tale che prima o dopo dovrà tornare a contattarci”». E infatti. Massimo, il figlio di Ciancimino, tornò a cercare il capitano De Donno e gli chiese se voleva incontrare il padre, ma da solo. Ancora Mori: «Io lo autorizzai. Fu il 18 ottobre. Poi mi riferì che Ciancimino aveva chiesto: “Va be’, ma che cosa volete voi?”. E noi eravamo già preparati a questa domanda. De Donno gli rispose: “Noi vogliamo Totò Riina, catturare Totò Riina”». Ciancimino accettò. Chiese a De Donno una serie di mappe della città di Palermo. De Donno si attivò.
STRANI MOVIMENTI
Il capitano De Donno tornò a trovarlo il 18 dicembre e gli portò quello che aveva recuperato. Ciancimino non era soddisfatto e diede indicazioni più dettagliate. De Donno tornò da Mori e gli disse che aveva notato movimenti strani attorno alla casa di Ciancimino, che infatti l’indomani mattina venne arrestato per scontare il residuo di pena. Mori pensava che la cosa fosse finita lì, ma sbagliava. Dopo Natale lo chiamò l’avvocato di Ciancimino perché il suo cliente gli voleva parlare, disse. Mori non fece problemi, ma spiegò che il rapporto con un detenuto cambiava le cose. Poi chiamò Gian Carlo Caselli – nel frattempo divenuto procuratore capo a Palermo – e gli raccontò tutta la vicenda. Caselli si mostrò molto interessato. L’ultimo colloquio investigativo fu il 22 gennaio 1993 a Rebibbia, in mattinata. Ciancimino si aprì a una collaborazione formale con lo Stato. Qui finisce la «trattativa Stato-mafia» a cura di Mario Mori e Giuseppe De Donno, che in pratica consistette nel loro lavoro: un dato di cronaca che perciò è stato qui riportato, quindi un fatto, meglio, un fatto che «non costituisce reato» o che «non è stato commesso» come sarà giudicato dopo decenni di infervorati lambiccamenti giudiziari ed elaborazioni narrative.