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Feltri, quando in carcere si torna a vivere: le storie di cinque detenuti a Quarto grado

di Vittorio Feltri domenica 11 giugno 2023

 Vittorio Feltri

3' di lettura

Troppo spesso, purtroppo, ci dimentichiamo che lo scopo della detenzione non è punitivo, bensì, come stabilisce la Costituzione medesima, rieducativo, ovvero il fine della pena è quello di riportare l’individuo che ha commesso il reato sulla retta via affinché, una volta reinserito all’interno della società, non intraprenda di nuovo la strada della devianza ma se ne discosti coscientemente e coscienziosamente. Questo almeno nella teoria. Nella pratica, a causa altresì del sovraffollamento delle nostre carceri, impostare un percorso rieducativo, formativo e riabilitativo individuale, il quale includa anche la chance di imparare o svolgere effettivamente un mestiere, è pressoché impossibile e addirittura accade che all’interno dell’istituto penitenziario il ristretto consolidi la sua scelta criminale, ovvero si abbrutisca, peggiori, si incattivisca, divenga ancora più arrabbiato, persuaso che non abbia altra chance nella vita se non quella di delinquere.

Per superare la piaga del sovraffollamento non serve creare altri edifici in cui rinchiudere coloro che si macchiano di crimini, più utile sarebbe, oltre all’applicazione – dove possibile – delle misure alternative alla detenzione, fare in modo che chi ha scontato la propria condanna, saldando il proprio debito sociale, non faccia ritorno in cella da lì a pochi mesi o pochi anni. Questo vale soprattutto per i giovani detenuti, ma non soltanto per questi. Mi rendo conto che sovente è anche la società civile ad impedire che l’ex carcerato possa immettersi nel tessuto sociale, questo a causa di un resistente pregiudizio e della nostra incapacità di perdonare o di comprendere che una persona, chiunque, meriti una seconda possibilità, che insomma possa cambiare, divenendo un cittadino perbene.

Gli istituti di pena sono costruiti nel cuore delle nostre città per ricordarci che il carcere non è un mondo a sé stante e che quello che accade tra le sue mura scrostate e umide ci riguarda da vicino. Per sensibilizzare tutti noi, cioè per esortarci a realizzare questa presa di coscienza, il programma Quarto Grado, condotto da Gianluigi Nuzzi e da Alessandra Viero e in onda ogni venerdì sera su Rete Quattro, ci ha proposto un ciclo di storie i cui protagonisti sono proprio soggetti detenuti, di cui la prima è stata raccontata lo scorso venerdì dalla cronista Francesca Carollo, la quale ha varcato i cancelli sia del carcere di Bollate sia di quello di San Vittore al fine di intervistare cinque ristretti, tra cui anche donne, i quali si sono resi autori di efferati delitti.

I protagonisti di queste vicende si mettono a nudo, senza tralasciare né negare le azioni sanguinarie per le quali sono finiti in gattabuia, mostrandoci che la reclusione, quando un percorso di rieducazione viene effettivamente concesso ed eseguito ed il reo ha quindi l’opportunità di rendersi conto pure del male che ha arrecato, può rappresentare una occasione per abbandonare una volta per sempre uno stile di vita malato, per migliorare se stessi e dare un nuovo senso al proprio esistere. Tutto questo non conviene solamente al detenuto ma anche e in particolare alla società intera, alla quale verrà restituita una persona in grado di essere una risorsa e non un soggetto che entra ed esce dal carcere come se si trattasse di un albergo. Ciascuno di noi è chiamato a fare la sua parte: il condannato, il quale deve avere la forza di volontà di redimersi e riscattarsi, le istituzioni, che devono fare sì che gli istituti di pena garantiscano l’iter rieducativo individuale assolvendo a quella funzione che attribuisce loro la Carta, e infine la comunità, ovvero noi cittadini, in questi ultimi anni intossicati da un giustizialismo primitivo di cui si sono fatti promotori soprattutto i Cinquestelle e che ci ha illusi che domandare giustizia equivalga a pretendere vendetta, cioè che il sangue si debba pagare con il sangue, che l’odio debba chiamare altro odio, in una spirale in cui abbiamo tutti soltanto da perdere.

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