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Nicolai Lilin, l'affondo: "Se i giovani non sanno più morire per la patria"

di Nicolai Lilin sabato 24 giugno 2023

6' di lettura

In questi giorni la stampa occidentale e quella russa si esprimono ampiamente su quanto accade in Ucraina. È ovvio che da tutti i lati siamo circondati dalle feroci propagande e ogni giocatore che impegna proprie forze sulla scacchiera geopolitica è interessato a rappresentare la realtà a suo favore, spesso inclinando l’oggettività verso la linea narrativa prediletta. Non ho mai letto così tante analisi di così numerosi esperti di guerra come in questi giorni, che approfondiscono la questione della famigerata controffensiva ucraina, ormai chiaramente impantanata, si è trasformata nell’ennesima guerra di posizione.

Mentre i russi in coro patriottico che ricorda i tempi dell’Urss glorificano le loro linee di difesa, la resistenza dei loro militari e il potere delle loro macchine da guerra (arrivando a toccare la follia, intendiamoci, come è avvenuto con la canzoncina per bambini dedicata al “buon alligatore”, così chiamano in Russia gli elicotteri d’attacco Ka-52 che in questa guerra vengono impegnati ampiamente per distruggere i mezzi che l’Occidente collettivo fornisce all’Ucraina), gli occidentali sembrano ormai aver superato la fase iniziale di stupore e rifiuto di accettare la sconfitta sul campo (lasciando alle spalle i tentativi ignobili dei primi giorni di spacciare per finte le immagini dei Leopard in fiamme) e stanno ragionando sul cosa fare adesso, ormai proponendo un ventaglio di scenari, a partire dalle trattative nei quali l’Ucraina dovrà accettare la perdita dei propri territori dell’Est, a finire con il coinvolgimento diretto delle truppe Nato sul suolo ucraino e persino minacciando la Bielorussia, sfiorando lo scontro nucleare come se fosse una curva assassina durante una gara di formula uno.

Gli ucraini in tutto questo continuano disperatamente a tentare di trovare le brecce nella difesa russa, perdono grandi quantità di uomini e mezzi e la loro narrazione ufficiale è confusa come mai prima: mentre il consigliere del presidente ucraino Zelenskij, Michailo Podolyak, dichiara che la controffensiva in realtà non è ancora iniziata, spiegando che i militari ucraini stanno soltanto testando il terreno, il suo capo ammette che la controffensiva non è un film hollywoodiano e lancia dei messaggi molto chiari ai propri tutori statunitensi, chiedendo loro di non fare pressioni né aspettare risultati straordinari da un’operazione ormai destinata al fallimento. Zelenskij probabilmente non ha ancora compreso che negli States tutto funziona in base alle regole del mercato e le persone che hanno investito tutti quei miliardi in lui e nel suo sistema bellico, secondo l’etica americana, hanno tutto il diritto di fare pressioni, perché hanno organizzato questo concerto e vogliono sentire la musica come e quando piace a loro.

L’ETICA DEI SINGOLI
Tutte queste congetture attorno a una guerra sono certamente interessanti e coinvolgenti, però nella moltitudine delle questioni discusse in questi giorni non ho letto o sentito affrontare quella legata a una delle più importanti, a mio umile parere, questioni. Da ex soldato che la guerra ha visto e ha fatto in prima persona, ritengo molto importante la questione dell’etica umana dalla quale dipende il modo in cui le masse dei militari impegnati in prima linea svolgono il proprio dovere.
L’etica che determina nell’individuo il rapporto con il mistero della vita e della morte.

Rispetto ai tempi passati, il valore della vita agli occhi dell’uomo moderno è aumentato drasticamente. Questo non è né un male né un bene: è un dato di fatto, specialmente tra le più giovani generazioni. Con i vecchi la storia è diversa; loro, la morte, la vedono ancora in modo shakespeariano, con accettazione e curiosità, una sorta di fatalismo, come Amleto che puntava lo sguardo nelle vuote e buie caverne oculari del teschio del povero giullare di corte Yorick. Una mia bisnonna ha visto due guerre mondiali, la rivoluzione d’ottobre, la guerra civile sovietica, ha visto suo marito fucilato dai bolscevichi nel cortile di casa e durante la seconda guerra ha ammazzato un soldato tedesco che cercava di violentare sua sorella più giovane e poi anche uno collaborazionista polacco che estorceva alla sua famiglia i soldi. Lei diede alla luce sedici figli, di cui solo sette arrivarono all’età adulta, e nessun bambino morì durante il parto. A quei tempi la morte era più banale e diffusa di oggi, quando ormai tutti i progressi della civiltà sono al servizio della longevità.

All’epoca, l’essere umano vedeva sempre attorno e accettava la morte come una parte immancabile della propria esistenza, e anche se non la desiderava con entusiasmo, considerava la morte un’opzione probabile nelle situazioni estreme. Durante il 1992, quando nel mio paese è scoppiata la guerra la mia bisnonna era l’unica che stendeva la biancheria nel cortile del condominio, senza timore di essere uccisa dalle bombe o dalle pallottole vaganti che non mancavano; perché, per lei, le lenzuola pulite e ben asciutte all’aria aperta era una questione molto seria. Per questo motivo, i soldati della prima e soprattutto della seconda guerra mondiale erano molto più propensi al sacrificio rispetto ai militari di oggi, accettavano la morte e soprattutto sapevano che la vita non è eterna, a differenza di quello che insegna alle giovani generazioni la cultura del videogioco, dove uno muore e resuscita più volte entro qualche decina di minuti, manco fosse Gesù. I giovani di oggi vivono in una realtà che a loro sembra già una forma di eternità personale, che si regge sul culto di sè come individuo, sull’egocentrismo sfrenato, sulla voglia di popolarità e divertimento. La morte, in tutto questo, non ha più spazio, è bannata come si fa nei social con i profili noiosi.

Il «morire comunque» di una volta ha allargato i confini del rischio e i limiti dell'abnegazione, trasformandosi nell’odierno «sopravvivere ad ogni costo», che attualmente è la motivazione principale dell’individuo medio. Noi abbiamo visto negli ultimi giorni la resa di interi reparti dell’esercito ucraino ai russi, avvenuta perché gli uomini erano stremati, feriti, si sentivano abbandonati dal proprio comando e hanno preso la decisione di arrendersi pur di salvarsi. Anche i soldati russi, durante i momenti di difficoltà, si sono arresi agli ucraini diverse volte. Sempre più individui che indossano l’uniforme preferiscono salvare la propria vita invece di portare a termine, anche se al prezzo estremo, la loro missione.

SCATOLE E FIAMMIFERI
Pertanto, quando gli alti comandi nei quartieri generali operativi elaborano i loro piani di vittoria, non tengono conto della prontezza di attuare questi piani dal punto di vista culturale, etico e psicologico dei «fiammiferi» e delle «scatole» (nel gergo militare sovietico, diffuso ancora oggi nel linguaggio militare negli eserciti dell’ex Urss, il fiammifero indica un soldato, mentre la scatola indica un carro armato). Oggi tutti i piani militari sono belli e perfetti soltanto sulla carta, mentre poi nella realtà li vediamo applicati da ragazzi che girano i video dei balletti su TikTok vestiti con la mimetica e con le armi da guerra, come se stessero giocando a fare un film, totalmente impreparati ad affrontare la dura realtà, che quasi sicuramente si concluderà con la morte.

Questo è uno dei motivi per cui i piani di contrattacco che sono stati elaborati per così tanto tempo non vengono attuati come previsto. I militari ucraini, temprati negli anni della guerra nel Donbass, sono sempre meno sul fronte, la gran parte è stata uccisa nel tritacarne di Bakhmut e in altri luoghi, mentre i giovani che arrivano a sostituirli sono diversi dal punto di vista etico e culturale. Se i giovani civili che se la spassavano nelle discoteche e nei bar di Kiev, Leopoli o Kharkiv non si preoccupavano della guerra prima di essere catturati per strada dai commissari di arruolamento, rasati e trasformati nei soldati dell’esercito ucraino, non vedo alcun motivo per cui devono scoprire l’impeto di sacrificio in nome di chissà quali ideali quando finiscono direttamente in prima linea. Questa controffensiva non si svolge solo nelle steppe del Donbass. È una lotta dentro l’essere umano che per l’ennesima volta nella storia affronta se stesso, strappato a pezzi tra le necessità storiche, gli obiettivi del potere e le possibilità offerte dalla propria cultura e natura.

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