Adolfo Urso oggi sarà a Berlino, dove incontrerà il ministro tedesco dell’Economia, Robert Habeck, e il suo omologo francese Bruno Le Maire. «Oggi nasce la trilaterale Italia-Germania-Francia sulla politica industriale, che segna una svolta in Europa», dice il ministro delle Imprese e del Made in Italy. «Finora le decisioni venivano prese dall’asse Berlino-Parigi: il nuovo format riconosce l’accresciuto peso politico, economico e strategico, dell’Italia. Peraltro, in questo momento la nostra è l’economia europea più reattiva e dinamica, come dimostrano i dati sul Pil, la crescita della Borsa di Milano e degli investimenti esteri».
Su quali argomenti intendete coordinare la politica industriale dei tre governi?
«La trilaterale nasce sulle terre rare e i minerali preziosi, materie prime critiche fondamentali per l’autonomia strategica del continente. Lo fa pochi giorni prima che la Commissione presenti al Consiglio Ue il regolamento che indicherà gli obiettivi e le modalità da perseguire. Lo stesso format a tre si realizzerà successivamente in Italia e in Francia, sulla tecnologia digitale e sulla tecnologia green».
Una scelta imposta dal nuovo scenario internazionale, insomma.
«Sì. Le terre rare e i minerali preziosi serviranno a garantire la nostra autonomia produttiva nella nuova era tecnologica. La guerra di Mosca in Ucraina ci ha fatto capire quanto sia stata pericolosa la dipendenza energetica dall’estero, dalla Russia. Non possiamo commettere lo stesso errore con la Cina, nel campo delle materie prime critiche e dei chip».
Oggi più dell’80% delle terre rare sono estratte in Cina e in Sud Africa, la Russia ha una posizione dominante nell’estrazione di platino e palladio. Cosa può fare l’Italia?
«Nei mesi scorsi abbiamo attivato con il ministro Pichetto un tavolo tecnico per aggiornare la mappa mineraria, che è ferma al 1973. Dalle prime stime risulta che nel sottosuolo italiano ci sono ben 15 dei 34 elementi indicati dalla Commissione europea come assolutamente necessari, in giacimenti chiusi da decenni. Si trovano principalmente in Liguria, Toscana, Campania, Sardegna e nell’arco alpino, in aree oggi protette. Abbiamo il più grande giacimento di cobalto in Europa, sono presenti titanio, manganese, litio. Avremo anche il dovere di lavorare queste materie prime nel nostro territorio, perché oggi il 98 per cento dei prodotti lavorati viene importato dalla Cina, e realizzare la filiera del riciclo, quella economia circolare dove siamo molto bravi».
Perché una iniziativa a tre? Non sono le cose che dovrebbe fare la commissione europea?
«Italia, Francia e Germania rappresentano il 55% del Pil manifatturiero d’Europa e insieme siamo la terza manifattura mondiale dopo Stati Uniti e Cina. Abbiamo filiere industriali comuni e spesso anche un unico bacino produttivo in settori strategici, con aziende che assurgono al rango di “campioni europei”, come quelle che saranno con noi presenti al meeting. La nostra iniziativa può quindi porre le basi per una politica industriale europea e stimolare l’azione delle istituzioni della Ue».
Il governo è impegnato anche nel «reshoring», il ritorno in patria delle industrie che avevano delocalizzato, e nell’attrazione di investimenti stranieri in Italia. Che state facendo?
«Abbiamo istituito lo “sportello unico” per le imprese straniere e corsie preferenziali per sburocratizzare le procedure di quanti avviano la loro attività in Italia. Abbiamo avviato una nuova stagione di politica industriale che valorizzale filiere strategiche, rafforzando le esistenti e creandone di nuove. Ad agosto porteremo in consiglio dei ministri il “Chips Act” italiano con il piano nazionale della microelettronica. Faremo tutto ciò che serve per far diventare l’Italia sempre più attrattiva, sia nei confronti di chi vuole tornare, sia di chi è interessato a investire nel nostro Paese».
Risultati ottenuti sinora?
«Gli “Ide”, gli investimenti diretti esteri in Italia, sono cresciuti del 17%, con un ritmo superiore a Germania, Francia e Regno Unito. In questi mesi ho percepito un grande interesse nei nostri confronti e pochi giorni fa il grande fondo d’investimento Blackstone ha dichiarato l’Italia il luogo ideale per investire in Europa. Ma per noi questo è solo l’inizio».
Sempre a proposito di tecnologie strategiche, l’Italia è in lizza per ospitare un impianto di Intel, il colosso statunitense dei microprocessori. Quali argomenti state usando per convincerlo?
«Con Intel abbiamo fatto quanto necessario e richiesto, mettendo sul piatto circa tre miliardi di euro per favorire l’insediamento in Italia. Ma non ci siamo fermati ad attendere le loro decisioni. In queste settimane una mia task force ha illustrato alle principali ottanta imprese multinazionali, a Taiwan, Corea del Sud, Giappone e in Usa, le linee guida del piano, ottenendo grande riscontro».
Nelle prossime settimane Giorgia Meloni sarà ospite alla Casa Bianca. A Washington si attendono che l’Italia esca dall’accordo Belt and Road con la Cina, siglato a suo tempo da Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Lei è sempre stato critico verso quell’intesa. Non rinnovandola, non si espongono l’Italia e le sue imprese alle ritorsioni di Pechino?
«Sulla Via della Seta deciderà nelle prossime settimane il governo nel suo complesso. Ma la stella polare che ci orienterà sarà la riduzione dei rischi politici e l’aumento delle opportunità commerciali. Non abbiamo pregiudizi ideologici, siamo un governo pragmatico che guarda ai risultati».
E i risultati sinora che dicono?
«Che la Cina è e resta un grande partner commerciale, ma l’Italia esporta più in Austria che in Cina. Da quando è stato firmato l’accordo per la Via della Seta, la nostra bilancia commerciale con la Cina è peggiorata: da un saldo negativo di 21 miliardi di dollari nel 2018 siamo passati a -47,3 miliardi. Altri, come Francia e Germania, hanno continuato a fare affari con la Cina anche senza aver sottoscritto accordi strategici. Una lezione che dovrà essere tenuta presente al momento delle decisioni. Per far tornare la Via della Seta a quello che è sempre stata: la via dei mercanti».
Lei sta lavorando anche a un disegno di legge sul riordino del settore dei carburanti, per tenere a bada i prezzi. Cosa devono aspettarsi gli automobilisti e i benzinai?
«Una riorganizzazione complessiva della rete non è più rinviabile. L’obiettivo è varare un provvedimento organico che abbia effetti sull’efficienza del settore e sui prezzi. Lo stiamo ultimando, anche grazie al lavoro del sottosegretario Bitonci, e lo presenterò nelle prossime settimane. Intanto abbiamo aperto un confronto continuativo con i rappresentanti del settore e ho chiesto a “Mister Prezzi”, con la collaborazione della Guardia di Finanza, di continuare nel monitoraggio dei prezzi alla pompa per evidenziare subito ogni anomalia e tentativo di speculazione. I risultati li stiamo vedendo».
A Stellantis chiedete di aumentare la produzione dei nuovi modelli in Italia. Nuove “rottamazioni” e nuovi incentivi per lo svecchiamento del parco auto nazionale fanno parte della trattativa? Glielo chiedo anche perché oggi i prezzi delle vetture elettriche sono proibitivi per una famiglia del ceto medio.
«In Italia si producono poco più di 470mila auto, contro un milione in Francia e 3,5 milioni in Germania. Siamo il Paese con il rapporto più basso tra veicoli prodotti e immatricolati: appena il 36%, mentre oltralpe si fabbricano i due terzi delle auto vendute e in Germania la percentuale è addirittura del 130%. Ai veicoli prodotti nel nostro Paese dall’unica azienda di mass production (e già il fatto che ve ne sia uno sola è un’anomalia) è destinato appena un quinto degli incentivi alla rottamazione, il resto va a imprese localizzate all’estero. Sono numeri che impongono un’inversione di tendenza per preservare la nostra filiera produttiva, che è da sempre un’eccellenza».
Che intendete fare quindi?
«Puntiamo a chiudere entro luglio un accordo di transizione con Stellantis che preveda un significativo incremento del numero complessivo dei veicoli prodotti e soprattutto dei modelli tecnologicamente sostenibili. E certo, c’è anche l’esigenza di svecchiare un parco auto obsoleto: 11 milioni di autovetture circolanti, più del 25% del totale, sono altamente inquinanti. Questa è la vera emergenza ambientale, alla quale dobbiamo dare risposte concrete».