Dal primo gennaio di quest’anno sono quasi 50, precisamente 47, i detenuti che si sono tolti la vita. Si tratta di una media di 7 suicidi al mese. Numeri che non possono lasciarci indifferenti, per quanto la società civile sia insensibile e indifferente nei confronti di coloro che dimorano all’interno delle strutture penitenziarie. È diffusa ancora la visione giustizialista, incompatibile con il principio costituzionale della detenzione quale strumento volto a rieducare il reo e finalizzato dunque al reinserimento sociale, del “sbattiamoli in cella e gettiamo via la chiave”. Manca la consapevolezza che non è una esigenza di ottenere vendetta a determinare la condanna, piuttosto la necessità di riparare, curare, ricomporre, sia per il bene della vittima del reato sia per colui che lo ha compiuto. Anche questi merita rispetto. Anche questi conserva dei diritti, nonostante la temporanea limitazione della libertà personale, in attesa che egli estingua il suo debito con la comunità, la quale - si auspica - dovrebbe poi riaccoglierlo. Cosa che non accade quasi mai.
La rinuncia a questi valori, ossia la loro mancata applicazione, comporta la fine della civiltà, il ritorno alla legge del taglione, alla regola del “occhio per occhio, dente per dente”, alla giustizia fai-da-te, alla esecuzioni in pubblica piazza. Ecco perché non possiamo e non dobbiamo ignorare le condizioni in cui si trovano a campare i reclusi. Tali condizioni ci riguardano, dovremmo chiederne conto, dovremmo parlarne. E a questo scopo, del resto, sono state create diverse figure istituzionali che fanno da tramite tra il carcerato e la società, penso, ad esempio, al Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Gli strumenti non sono assenti, è assente il loro corretto utilizzo semmai. Infatti - perdonerete la dovuta franchezza - non posso evitare di credere e di affermare che, allorché un detenuto si ammazza, qualcosa si è inceppato, qualcosa non ha funzionato, qualcosa è stato trascurato. E dunque qualcuno è morto. E questo qualcosa che ha fatto cilecca, soltanto quest’anno, ha fatto cilecca la bellezza di 47 volte. 47 volte sono 47 vite, 47 morti, 47 tragedie, 47 morti premature, 47 suicidi, 47 storie di disperazione, solitudine, devianza, emarginazione, 47 esistenze spezzate. E moltiplichiamo questo 47 per il numero incalcolabile di parenti, familiari, amici, genitori, figli, che hanno perduto chi amavano.
Tentavamo insomma di sanare un danno e abbiamo fatto una carneficina. Abbiamo fallito. Mi chiedo. Vi chiedo. Basta costruire nuovi istituti di pena per risolvere le piaghe che affliggono il sistema penitenziario italiano o forse dovremmo anche mutare approccio verso queste questioni, magari cominciando a capire, a dire, a fare conoscere che esse, che ci piaccia o meno, ci riguardano da vicino? Ci riguarda da vicino quello che è successo a Susan John, la quarantaduenne nigeriana che si è lasciata spegnere in cella rifiutando per settimane, ovvero per 20 giorni, cibo e acqua, in quanto voleva vedere il suo bambino di 4 anni. E qui si pone pure una questione di tutela dei diritti dell’infanzia. Perché Susan era reclusa a Torino se il figlio vive in Sicilia? Come avrebbero potuto incontrarsi il fanciullo e la genitrice?
Scopro che un carcerato che non si alimenti, affinché si attivino le procedure che permettono che riceva la dovuta assistenza la quale dovrebbe essere automatica in determinati casi, debba avere dichiarato prima la sua volontà di realizzare codesta forma di sciopero quale mezzo di protesta contro il governo o la politica in generale. Mi pare una bestialità. Si modifichi la legge. Il caso insegni. Ci riguarda da vicino pure la vicenda di Azzurra Campari, 28 anni. Anch’ella suicidatasi nel carcere di Torino pochi giorni addietro, a poche ore di distanza dal trapasso di Susan. Una giovane con un passato difficile, che poteva essere salvata. Mentre la ragazza si appendeva al cappio la mamma, come presa da un angoscioso presentimento, provava invano a mettersi in contatto con il centralino dell’istituto per fissare un incontro con la figlia. Dopo di loro un altro ristretto, un quarantaquattrenne di Lamezia Terme, stavolta nel carcere di Rossano, in Calabria, è stato trovato senza vita I loro reati sono colpa loro, si commenterà. Le loro morti tuttavia sono colpa nostra. Erano affidati allo Stato.