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Gaza, "gabbia mortale": qual è il rischio che deve correre Israele

di Claudio Brigliadori venerdì 13 ottobre 2023

4' di lettura

Una città fantasma, abitata da fantasmi: Gaza rischia di fare la fine di Aleppo, il luogo "martire" per eccellenza della sanguinosa guerra in Siria. Lo dice la storia, passata, presente e futura. E sembra suggerirlo la politica, ammutolita di fronte a quello che sembra essere diventato lo scontro definitivo tra Israele e Hamas.

Dopo l'eccidio di civili perpetrato sabato mattina dai jihadisti di Hamas, la capitale della Striscia è stata subito indicata dal governo di Tel Aviv come il bersaglio grosso per colpire il nemico. E gli stessi miliziani islamici hanno deciso di piazzare lì la loro trincea. Una scelta solo apparentemente suicida: con loro hanno portato 150 ostaggi israeliani (e non solo, visto le doppie nazionalità di molti tra i coloni dei kibbutz e i giovani del rave nel deserto del Negev). Li hanno usati fin da subito come scudi umani, in una orribile strategia win-win

IL SUICIDIO DI ISRAELE
Due sono gli scenari, come suggerisce Lucio Caracciolo su Repubblica. O il "cane pazzo" Israele si conferma tale, spietato pur di difendere la propria stessa esistenza annichilendo e spaventando il nemico (è la dottrina di Moshe Dayan), passando però immediatamente dalla parte del torto per l'opinione pubblica internazionale, oppure non reagisce, si ritrae, tratta, mostrandosi però incapace di difendersi. In entrambi i casi, un colpo letale. Hamas, secondo il direttore di Limes, vuole accompagnare Israele "alla tomba spingendolo ad atti suicidi". Questo significa infatti entrare nella "gabbia di Gaza, costringendolo a combattere in uno stretto spazio urbano la guerra" che Israele "ha sempre voluto evitare: lunga, sanguinosa, ideale per la guerriglia. Estendibile su vari fronti", anche e soprattutto al terrorismo internazionale. 

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300MILA SOLDATI
Una gabbia, Gaza, lo è di fatto da anni. Ma per i 2 milioni di abitanti che ci vivono, di cui 900mila (il 40%) ragazzini e bambini. L'assedio e l'embargo totale a una delle zone più popolate della terra, con l'invasione via terra e la "offensiva globale" con fanteria e tank, espone l'esercito invasore a rischi di ogni tipo. Vengono alla mente il Vietnam, Saigon, Baghdad, l'Afghanistan, Sarajevo, Aleppo appunto. Ogni quartiere, ogni palazzo, ogni scala una possibile trappola mortale per soldati e riservisti israeliani, mobilitati già nell'ordine di 300mila unità al confine con la Striscia. "Per blindarla e non far entrare nessuno in Israele", è la versione ufficiale dell'Idf, le forze armate israeliane. Per preparare l'assalto, secondo molti analisti. 

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LA PROMESSA DI NETANYAHU
Allora, di fronte a uno scenario di guerriglia mortale pressoché certo, potrebbe spingere il presidente israeliano Benjamin Netanyahu a tentare comunque la sorte. Primo: la "vendetta" contro Hamas, che non è un semplice slogan ma un assunto storico. Israele ha sempre colpito i nemici degli ebrei, anche a distanza di anni, non temendo la condanna internazionale né le conseguenze materiali della rappresaglia. E' successo in qualche modo con i gerarchi nazisti della Shoah, a cui hanno dato la caccia per decenni. A maggior ragione è accaduto con i terroristi palestinesi dei Giochi di Monaco 1972, uccisi uno a uno. Ed è accaduto in maniera ufficiale davanti a ogni conflitto aperto o provocazione del nemico, dalla Guerra dei Sei giorni a quella dello Yom Kippur. Lo stato ebraico, stretto tra potenze violentemente anti-semite, ha sempre riconosciuto nel contrattacco l'unica forma di garanzia di sopravvivenza, a costo di "fare da solo". "Li uccideremo, sono uomini morti", ha detto Bibi Netanyahu dei membri dell'organizzazione terroristica. Una promessa a cui difficilmente rinuncerà a portare a termine. 

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GLI INTERESSI DELLE SUPERPOTENZE
Tuttavia, la soluzione militare non pare essere oggi una via d'uscita. Servirebbe una svolta politica in grado di sminare il Medio Oriente, ma la rottura totale tra Stati Uniti e Russia (le due superpotenze da sempre garanti del fragilissimo Status Quo), gli interessi di Turchia e Iran, Egitto, Qatar e Arabia Saudita non permettono al momento alcun punto d'incontro. Hamas, pare con il via libera del Gruppo Wagner, lo sa e per questo ha deciso di forzare la mano, portando a compimento il peggior atto di guerra contro degli ebrei dai tempi della Seconda Guerra mondiale. Israele, nominalmente, non è solo ma non ha nessuno che possa aiutarlo materialmente: l'Europa è alle prese con l'Ucraina, e forse resterà l'unica a considerarla una priorità. La Casa Bianca, a un anno dalle elezioni, non è mai stata tanto debole e incerta sul piano internazionale. 

COME GILAD SHALIT
In questo scenario dunque si spiega la fase preliminare dell'assalto ad Hamas, la decisione di tagliare acqua, luce, medicinali e viveri. La scommessa era quella di mettere in crisi il sostegno della popolazione ai jihadisti, ma il sospetto è che ormai sia troppo tardi: i "laici" palestinesi vedono nella Guerra Santa, dopo i decennali fallimenti e la corruzione di Abu Mazen e Anp, l'unica speranza di ottenere il loro Stato. "Sarà una guerra lunga, lunga", va ripetendo in queste ore l'ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli, e non è il solo. Dopo le barbare esecuzioni di Hamas, lo scontro barbaro nei vicoli di Gaza, tra ruderi e macerie frutto di anni di bombardamenti e raid punitivi. Una tregua potrebbe arrivare se gli ostaggi venissero liberati, certo, ma a nessuno forse interessa più di loro. Sacrifici inevitabili per arrivare a un nuovo punto di equilibrio. "Il Medio Oriente non sarà più lo stesso", hanno annunciato fin da subito gli israeliani. Centocinquanta martiri, come la città che li sta mantenendo in vita sotto terra. Nel 2006 il giovanissimo soldato israeliano Gilad Shalit, poco più che adolescente fu rapito dai miliziani israeliani a due passi dal confine della Striscia. Dopo una estenuante e contestatissima trattativa venne liberato in cambio del rilascio di circa mille prigionieri palestinesi. Era l'ottobre del 2011: cinque anni dopo. Forse è questo il destino che aspetta i più fortunati tra quei 150. Ma cinque anni di embargo, missili, fame e ospedali devastati sono troppi affinché Gaza possa farcela.

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