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Senaldi: ora l'antisemitismo dilaga nel mondo

lunedì 23 ottobre 2023

4' di lettura

Era ottobre anche 41 anni fa - il 9 ottobre 1982, Shabbat -, quando un commando palestinese attaccò la sinagoga di Roma e uccise Stefano Gaj Tachè, un bimbo di due anni, ferendo altre quaranta persone. Bisogna risalire a quell’anno per ritrovare un clima di tensione paragonabile a quello di questi giorni in Israele e nel mondo sulla causa ebraica. Allora l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, padre putativo dei terroristi di Hamas, aveva scatenato una sanguinosa Intifada in risposta al massacro di Sabra e Shatila, operato però dalle falangi e dall’esercito del Libano, che volevano vendicare l’assassinio del loro presidente da parte degli sgherri di Arafat, e come oggi i nemici di Israele avevano trovato amici nei movimenti studenteschi e nella sinistra nostrana.

Il meccanismo è identico. Il disagio che la sinistra estrema - ma non poi così tanto - prova per le democrazie occidentali si trasforma in anti-sionismo ogni volta che il Medio Oriente si infiamma, perché Israele è il baluardo degli Stati Uniti, e quindi dell’Occidente, e come tale va odiato e combattuto. La strategia, ora come allora, ha come caposaldo la nazificazione di Israele, la trasformazione della vittima in boia. Se ne è avuta la conferma sabato in piazza, quando nel corteo pro-Palestina è comparsa la fotografia di Anna Frank con la kefiah, ebrea vittima dell’Olocausto a quindici anni, utilizzata per paragonare la Striscia di Gaza oggi ai campi di sterminio di Hitler, e i manifestanti hanno lanciato lo slogan «via i sionisti da Roma».

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Questa orribile assimilazione tra perseguitati - gli ebrei lo sono da duemila anni- e assassini non è solo fenomeno di piazza, appannaggio di giovani fuori dal tempo che vogliono imitare i loro padri e i loro nonni, che giravano nelle nostre città con il copricapo palestinese. Ha i suoi padri nobili, Alessandro Orsini, il professore che ha una passione sfrenata per le dittature, che ha definito Netahyahu «un criminale di guerra» e sostenuto che «la disumanità di Israele è uguale a quella di Hamas», oppure Alessandro Di Battista, che alla manifestazione “Ora e sempre Intifada” (il solo parteciparvi è complicità con i tagliagole islamici) ha affermato che «lo Stato ebraico fomenta il terrorismo». Ancora peggio l’Unità e il Manifesto, che hanno fatto il salto: Israele non sarebbe più come Hamas, ma peggio, sarebbe il responsabile degli atti terroristici di Hamas. Il tutto mentre i profili di noti giornalisti ebrei che si sono esposti a favore di Israele, uno per tutti David Parenzo, sono invasi da frasi tipo «la prossima bomba a casa tua», «hai le mani sporche di sangue come Netanyau», «bastardo ebreo, tra poco tornerai cenere».

SILENZIO ASSENSO - E il Pd? Tace, non condanna, quindi acconsente. La solidarietà dei progressisti italiani a Israele si è fermata alla sera del 7 ottobre, il giorno della mattanza nei kibbutz. È un silenzio colpevole, perché non taglia l’immarcescibile cordone ombelicale tra la sinistra e l’antisionismo, che sconfina sempre nell’antisemitismo e nell’odio razziale, e perché, tappandosi gli occhi sulla realtà, diventa complice di quel che accadrà. È facile previsione infatti che la comunità ebraica, quando l’esercito israeliano entrerà a Gaza e il livello di tensione salirà ulteriormente, potrà essere vittima di attacchi violenti esattamente come nell’ottobre del 1982. La cosa ancora più grave è che stavolta, magari, gli autori non saranno palestinesi, ma islamici radicalizzati che vivono in Italia da anni o decenni, o addirittura schegge impazzite italiane provenienti dall’estrema sinistra, dai centri sociali o da qualche altro sedimento di odio della società. I progenitori del Pd fecero questo errore già negli anni Settanta. Chiusero gli occhi di fronte al germogliare del terrorismo rosso, quindi tentarono perfino di comprenderne, e perorarne, qualche ragione, infine si dissociarono flebilmente e, dopo una breve e formale condanna, tornarono a tacere.

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Quanto alle ragioni dell’odio anti-ebraico che dilaga in Occidente, perfino nell’università americana di Harvard, l’eccellenza americana dove la maggioranza dei professori è di origine semita, esse sono legate alla fascinazione per le dittature e all’allergia per le democrazie che in Italia è retaggio del fascismo ed eredità del Partito Comunista filo-sovietico. Con in aggiunta il carico da novanta dell’integralismo islamico ormai dilagante, al quale l’islam moderato non vuole o non riesce a opporsi, al punto da far perfino dubitare della sua esistenza. Ne consegue che oggi, aparte gli Usa, il governo Meloni e la Germania, i migliori alleati di Israele sono Egitto, Giordania, Arabia, Emirati Arabi.

Al Sisi bloccala fuga dei palestinesi da Gaza perché teme di importare terroristi. Amman ha fatto lo stesso per tenersi fuori dal conflitto, arrivando a sedare manifestazioni interne pro Hamas, gli altri due Paesi hanno ormai avanzati rapporti commerciali con Tel Aviv, che qualcuno indica tra le ragioni dell’attacco terroristico del 7 ottobre, mirato a sabotare il processo di distensione in Medio Oriente. E l’Europa? La commissaria Ursula von der Leyen, che per una volta ne aveva fatta una giusta, ha ricevuto una lettera firmata da quasi un migliaio di componenti del suo staffe delle istituzioni Ue che si dicevano «preoccupati» per le sue posizioni troppo filo-Israele. Ce ne sarebbe abbastanza per aprire un’inchiesta sull’antisemitismo strisciante di Bruxelles.  

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