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Pietro Senaldi: Donald Trump è in fuga e nessuno lo cattura

di Pietro Senaldi martedì 7 novembre 2023

6' di lettura

Se si votasse domani, anziché tra un anno, Donald Trump tornerebbe alla Casa Bianca in carrozza. Il New York Times ieri ha pubblicato un sondaggio realizzato con il Siena College dal quale risulta che l’uomo più discusso d’America sconfiggerebbe l’attuale presidente, Joe Biden, in cinque su sei swinging States, gli Stati storicamente in bilico tra repubblicani e democratici. The Donald è dato per favorito con un margine di 4 punti in Pennsylvania, di cinque in Michigan e Arizona e di sei in Nevada. Solo in Wisconsin prevarrebbe l’attuale inquilino della Casa Bianca, con un vantaggio di due punti. Sono tutti Stati in cui tre anni fa il presidente uscente aveva perso.

Siccome appare ormai sempre più probabile che Trump sia il candidato repubblicano, visto che il suo competitor interno, il governatore della Florida Ron DeSantis, è scivolato 35 punti dietro al tycoon nei sondaggi, i democratici hanno essenzialmente due fattori su cui basare le proprie speranze. Il primo è il tempo. Un anno è periodo troppo lungo per fare pronostici validi. Tante cose possono succedere. Barack Obama ad agosto era ancora indietro rispetto a John McCain; poi a settembre fallì la banca d’affari Lehman Brothers e il rapporti si ribaltarono. Il secondo è che, in un modo o nell’altro, magari con la scusa della salute, il cosiddetto deep-state statunitense, il sottopotere che davvero governa, convinca Biden al passo indietro; solo che l’interessato non pare disponibile e, accantonata per manifesta incapacità la sua vice, Kamala Harris, non si trova un’alternativa valida. Gran parte della forza di Trump infatti risiede nella debolezza dell’avversario, il cui indice di gradimento presso gli americani è scivolato al 37% e risulta in calo anche presso l’elettorato fidelizzato dei democratici, favorevole a sleepy-Joe per il 75%, undici punti in meno rispetto all’86% di un mese fa.

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ARRIVA LA RECESSIONE - C’è però un terzo fattore, quello più cupo per i sostenitori dell’asinello, che non è l’ultimo soprannome del presidente uscente ma il simbolo della sinistra Usa. È la recessione attesa per il 2024. È notorio che l’elettorato vota principalmente con il portafoglio, e quello americano in particolare. Da Los Angeles ad Atlanta, la politica estera ha un peso non superiore al 15-20% nel determinare la scelta del presidente. Ebbene, Biden oggi è perdente malgrado i fondamentali dell’economia americana funzionino e malgrado la sua amministrazione abbia iniettato denaro pubblico nel sistema in quantità superiore perfino rispetto a quella del New Deal con il quale Franklin Delano Roosevelt agli inizi degli anni Trenta fece uscire gli States dalla grande depressione. Anche l’andamento dell’economia non è una certezza ma gli analisti scommettono che l’anno prossimo le scelte restrittive della Federal Bank, che da due anni rialza il costo del denaro per frenare l’inflazione, si faranno sentire. Succede sempre così negli Usa, dove le aziende non si finanziano con le banche ma soprattutto sul mercato, con le obbligazioni, garantendosi per periodi lunghi: servono due anni perché le strette monetarie producano effetti di contrazione dell’economia; e adesso è giunto il momento. Per i prossimi mesi si prevedono tagli importanti sulle spese da parte delle imprese; e si sa che negli Usa si parte sempre dal personale.

La reviviscenza di The Donald ha svariate ragioni. Innanzi tutto le ripercussioni mediatiche del fallimento dei due grandi Stati democratici per eccellenza, la California e New York.

Vittima di Gavin Newsom, un governatore che non ha nulla da invidiare alla coppia Fratoianni-Bonelli, che al suo confronto sono dei progressisti moderati, lo Stato occidentale con la più alta concentrazione di miliardari al mondo è riuscito inspiegabilmente a finire in bancarotta. Sono fallite le banche locali, esposte sui titoli verdi, è fallita perfino l’arcidiocesi di San Francisco, la classe media è stata spazzata via, la vita è diventata carissima. Non va meglio a New York, dove ogni sera dormono in strada quindicimila senzatetto. La Grande Mela è diventata meta degli immigrati clandestini, in fuga dalla costa orientale, dove le amministrazioni, con le elezioni locali alle porte, stanno tentando il giro di vite. La metropolitana è ripiombata indietro di cinquant’anni, alle scene cult del film “I guerrieri della notte”, regno di gang, barboni e disperati. Di contro, gli Stati tradizionalmente repubblicani, come il Texas, fioriscono. Volano in economia, dominano sulla tecnologia e il design, sono riusciti a trasformarsi perfino in polo culturale e artistico.

Le cartoline che arrivano dal territorio hanno un peso specifico importante. Il sondaggio del New York Times spiega che Trump è riuscito a risalire nel gradimento dei giovani, i votanti dai 18 ai trent’anni, tradizionalmente di sinistra. Tre anni fa in quella fascia di elettorato Biden aveva prevalso di otto punti; oggi è sopra di un misero un per cento. Negli ultimi mesi l’ex presidente ha anche dimezzato lo svantaggio, da 20 a 10 punti, presso la comunità ispanica e ha raddoppiato il gradimento, da 10 a 20 presso gli afroamericani. Sono smottamenti legati all’insoddisfazione economica delle classi meno agiate, poco toccate dalla ripresa post-Covid, e alla risposta non soddisfacente dell’amministrazione democratica all’immigrazione clandestina, contro la quale l’approccio trumpiano è ben più risoluto. Nei giorni scorsi è comparsa un’altra rilevazione significativa: in campo economico il 60% degli americani si fida di Donald ma solo il 32% di Joe, catalizzatore della scontentezza per il combinato disposto dell’inflazione che sale mentre gli stipendi scendono. La comunità democratica ne è consapevole e non è un caso che negli ultimi giorni sul New York Times siano apparsi retroscena rivelatori dei dubbi della sinistra americana su una ricandidatura di Biden. Sembra quasi un appello al presidente a farsi da parte.

In alternativa, c’è la via giudiziaria. Trump è indagato con l’accusa di aver organizzato, o almeno fomentato, l’assalto del gennaio 2021 a Capitol Hill e per aver gonfiato i valori delle sue proprietà immobiliari per alterare i bilanci ed è stato condannato per truffa nelle spese elettorali. L’ex presidente ha trovato però il modo di rivoltare la frittata. Ha messo in vendita la maglietta con stampata la sua foto segnaletica e si è pagato così i 200mila euro di cauzione, guadagnandoci anche. Recita la parte del perseguitato, che gli rende, economicamente e in termini di consenso.

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Non è difficile a credersi, in un’America sempre più bigotta, giustizialista e soffocante; ma la novità è che questi tre aggettivi si coniugano alla sinistra, anziché ai repubblicani.

Già, a remare contro Biden, che pure sull’argomento è moderato, finanche libertino, è il dilagare dell’ideologia “woke”, termine che inizialmente stava a significare l’attenzione per i diritti delle minoranze, etniche, sessuali o culturali. Complice un atteggiamento ossessivo e soffocante della sinistra, la destra americana è riuscita a convertire il significato dell’espressione in senso negativo, come simbolo dell’atteggiamento di dogmatismo intollerante e censorio nei confronti delle parole e delle idee che contrastano le più moderne sensibilità in temi di diritti civili e parità di genere. C’è una controrivoluzione che ha come obiettivo la cancel culture e che ha preso credito anche grazie alle recenti manifestazioni tenutesi all’università di Harvard contro Israele, che hanno spostato da sinistra a destra gran parte della comunità ebraica. Nella sensibilità dell’americano medio, quello che rischia il posto di lavoro a causa della transizione verde che i dem hanno avviato senza programmazione né cuscinetti sociali, Trump rappresenta il diritto di andare a prostitute mentre Biden incarna il divieto di fare un complimento alla collega o il rischio di prendere l’ascensore da solo con lei.

LA RICETTA DEL TYCOON - Da ultimo, c’è il capitolo politica estera. Trump ha dato dell’idiota al dittatore nordcoreano Kim Jong-un, ma è stato il solo presidente americano a incontrarlo, e metterlo in riga. Nel suo dichiarato disinteresse per quanto accade fuori dai confini nazionali, The Donald è stato capace di eliminare il generalissimo iraniano Qassem Soleimani, la mente del terrorismo islamico nel mondo, senza che l’Occidente patisse conseguenze. Al posto delle dichiarazioni di principio e d’intenti, fatti concreti; l’unica cosa che il nemico rispetta. Il guerrafondaio Trump ha garantito agli americani quattro anni di pace. L’ex braccio destro di Obama si trova a gestire due guerre; per di più non in buoni rapporti con i suoi alleati sul campo, Bibi Netanyahu e Volodymyr Zelenski. Quest’ultimo peraltro pare aver già mangiato la foglia e ha invitato Trump in Ucraina per convincerlo che Putin non addiverrà a miti consigli. Il leader russo confida nell’elezione dell’ex presidente per chiudere la partita con Kiev con una pace favorevole a Mosca, ma difficilmente Washington gliela concederà gratis; anche in caso di un cambio alla Casa Bianca.  

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