Alla vigilia dell’uscita del loro libro “La verità sul dossier mafia-appalti” (Piemme), Libero ha colloquiato con il generale Mario Mori e il colonnello Giuseppe De Donno. Ciò che emerge dal volume, e che si intuisce già da questa intervista, è materiale letteralmente incandescente.
La Cassazione ha demolito la montagna di accuse contro di voi sulla presunta trattativa Stato-mafia. Allora i vent’anni di vostro massacro mediatico e giudiziario sono stati solo un errore o c’era altro?
Mario Mori: «Non ritengo si sia trattato solo di un errore. Lo è stato forse per alcuni magistrati, ma per altri è stato più forte - diciamo così - il partito preso. La nostra indagine andava a sgretolare un sistema di relazioni nella media e alta borghesia siciliana: imprenditori, politici, magistrati. A volte quelle relazioni, quei contatti, diventano vincolanti...».
Giuseppe De Donno: «Molto induce a ritenere che la causa dell’assassinio di Paolo Borsellino, o almeno una forte accelerazione di quell’attentato, sia stata legata al rischio – nell’ottica di alcuni – che l’indagine su quel dossier andasse avanti e fosse potenziata. A posteriori, mi pare probabile che l’attacco giudiziario contro di noi fosse “utile” per renderci inabili a far dichiarazioni e a essere ascoltati. E un’eventuale condanna ci avrebbe ovviamente impedito di proseguire la battaglia».
La tesi del libro è che la priorità di molti, di troppi, fosse fermare l’inchiesta mafia-appalti. Cosa c’era in quel dossier?
G.D.D.: «C’era un’impostazione completamente innovativa. La nostra tesi investigativa era che politici, imprese e Cosa nostra partecipassero alla spartizione degli appalti. Nessuna estorsione, nessuna minaccia, nessuna vittima: i partecipanti erano perfettamente consapevoli di ciò che facevano. Con due effetti clamorosi: il reato da contestare, a quel punto, non sarebbe stata più la corruzione o la concussione, ma il 416 bis, cioè l’associazione mafiosa. Non solo: tutto il denaro scaturiva dagli stessi lavori pubblici, attraverso un consapevole e sistematico sovradimensionamento degli appalti. E in più accertammo i contatti tra Cosa nostra e le grandi imprese: pensi all’acquisto della Calcestruzzi (dal gruppo Ferruzzi) da parte di Antonino Buscemi. È ciò che aveva indotto Giovanni Falcone a dire che la mafia stava entrando in Borsa».
M.M.: «Capisce che a quel punto sarebbe stato impossibile non contestare il 416 bis. Ma la precisa attenzione della Procura palermitana era proprio quella di evitare collegamenti tra Cosa nostra, l’imprenditore Buscemi e Gardini».
State dicendo che sarebbe venuto fuori un quadro di compromissione tra politica, grandi imprese, coop rosse e mafia, nessuno escluso. È per questo che Mani Pulite non riuscì a passare lo Stretto di Messina, per usare l’efficace immagine di Fabrizio Cicchitto?
M.M.: «Confermo».
G.D.D.: «Anche per alcune grandi imprese sarebbe stato difficile ripetere l’argomento usato a Milano: “Siamo obbligati, siamo concussi...”. Quel che emergeva semmai era che qualcuno era diventato socio di Cosa nostra».
Antonio Di Pietro, anche in sede giudiziaria, ha svolto considerazioni interessanti ma non sufficientemente note al riguardo. Cosa manca ancora a una ricostruzione completa?
M.M.: «Manca il seguito. Ci sono stati contatti e un incontro tra Borsellino e Di Pietro. Poi Borsellino venne assassinato. Ma le basi per una collaborazione e soprattutto per continuare l’inchiesta rimanevano. La domanda da porsi è: perché la Procura di Palermo non ha proseguito?».
G.D.D.: «Di Pietro ci ha reso pubblicamente merito, ci ha riconosciuto di aver capito prima e di aver avuto ragione. Sia in dibattimento che in interviste ha confermato che noi insistevamo, dopo la morte di Borsellino, affinché lui prendesse in mano l’inchiesta. Purtroppo non andò così. In tempi non lontani, Di Pietro ha detto di essere addirittura arrivato a dubitare del fatto che Gardini si sia suicidato... Com’è noto, Di Pietro aveva raggiunto un’intesa con gli avvocati di Gardini affinché quella mattina Gardini si presentasse in Procura».
E, al di là di ciò che Di Pietro aveva già chiarito con gli avvocati, cosa restava da chiedere a Gardini?
G.D.D.: «Del rapporto con Cosa Nostra attraverso Buscemi... Lei comprende che sarebbe cambiato tutto il racconto di quegli annidi storia d’Italia: sarebbe venuto fuori che il “salotto buono” era diventato socio della mafia...».
Torniamo al dossier mafia-appalti. Perché il procuratore di Palermo Pietro Giammanco affidò la questione al telefono a Paolo Borsellino proprio la mattina della domenica in cui il pm sarebbe stato ucciso? Coincidenza fatale?
M.M.: «Alle 7.15 di quella domenica mattina il procuratore di Palermo chiamò il suo aggiunto, comunicandogli che gli concedeva la possibilità di indagare sulla attività mafiose a Palermo. Beh, poteva farlo il mattino successivo, il lunedì... Che urgenza c’era? A cose avvenute, a posteriori, si può concludere che l’unico fatto che stava per verificarsi era la morte di Borsellino».
Generale, la sua è un’ipotesi di gravità clamorosa...
M.M.: «Giammanco arrivò intorno al ’90 alla Procura di Palermo. Era amicissimo dell’onorevole Mario D’Acquisto, uomo collegato a Salvo Lima. E forse è vero quel che sostenne il pentito Angelo Siino: e cioè che la nostra informativa su mafia e appalti del febbraio ‘91 era subito “transitata” a Cosa nostra, che dunque ebbe modo immediatamente di capirne la pericolosità e prendere le relative contromisure, incluse le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Resta da capire come mai, da quando lasciò Palermo fino alla sua morte nel 2018, nessuno chiese conto a Giammanco di tutte queste cose».
Anzi, l’archiviazione fu ultrarapida, come si sa...
G.D.D.: «Ecco, sull’archiviazione i nostri detrattori usano alcuni argomenti che vanno smontati. Intanto dicono che la nostra inchiesta era tutta già sintetizzata nell’informativa del febbraio ’91, e aggiungono che in quell’informativa non c’erano riferimenti alla politica. Ma per forza non c’erano: avevamo già inviato a Falcone, Pignatone e Lo Forte due informative nell’agosto ’90 con materiali e anche intercettazioni su personaggi politici locali e nazionali. Dicemmo: “Questo materiale lo estrapoliamo e ve lo trasmettiamo”. Dunque la Procura sapeva».
Non solo. Vi obiettano anche: sì, l’archiviazione c’è stata, ma altre attività e arresti sono stati comunque svolti...
G.D.D.: «Ma per favore... Se Borsellino, dopo la morte di Falcone, insiste su questa indagine e sulla sua importanza. Se il 14 luglio, in una riunione in Procura, chiede conto in malo modo delle mancate indagini. Se tutto questo è vero, e lo è, le pare normale che, dopo la sua morte, ci sia stata una corsa ad archiviare? In un posto normale, si sarebbe proseguito il lavoro, eventualmente ci avrebbero riconvocato per approfondire alcuni aspetti, per rivitalizzare e non far cadere l’inchiesta...Anche perché noi continuavamo a fornire materiale».
M.M.: «È vero che altre attività sono state svolte. Ma senza mai fare la sintesi tra mafia-appalti e Mani Pulite. Non hanno inciso il bubbone. Le aggiungo un particolare: i magistrati Lo Forte e Scarpinato, a pagina 335 dell’informativa, sapevano che Vito Buscemi, fratello dell’imprenditore mafioso, aveva un appartamento in Via D’Amelio...».
C’erano stati anche contatti tra Giammanco e il Ministero della Giustizia?
M.M.: «Nell’agosto ‘91 Giammanco inviò al ministro Martelli l’informativa su mafia-appalti. Ma era irrituale inviare in sede politica materiale adatto a un’inchiesta giudiziaria, e infatti il Ministerò restituì le carte con questa motivazione: era materia penale e non politica. Lo stesso Csm fu informato. Perché anche in quella sede, poi, non fu sollevato alcun problema rispetto all’archiviazione?».
G.D.D: «Anche qui i nostri detrattori si contraddicono. Se nella nostra informativa di febbraio ’91 non c’era poi granché, come mai Giammanco se ne preoccupava tanto?».
A questo punto, secondo voi, vent’anni di narrazione anche mediatica sulla trattativa sono stati una potentissima arma di distrazione
M.M.: «Non ho mai avuto dubbi al riguardo».
G.D.D.: «A maggior ragione dopo che la Cassazione ha demolito le accuse. In appello eravamo stati già assolti perché “il fatto non costituisce reato”. In Cassazione si è passati all’assoluzione “per non aver commesso il fatto”... Una demolizione totale dell’impianto accusatorio».
Cosa vi aspettate adesso dalla Commissione Antimafia?
M.M.: «Mentre, a ormai trent’anni dai fatti, mi pare difficile che emergano novità sul piano giudiziario, adesso tocca alla politica capire cosa sia successo. Tutto va riesaminato e riaffrontato, ci sono pagine decisive da riscrivere».
Temete smentite o temete il silenzio?
M.M: «In Antimafia sono stati auditi Lucia Borsellino e l’avvocato Fabio Trizzino, che hanno lasciato a verbale dichiarazioni importantissime e clamorose. Ma, tranne voi di Libero e altre due o tre testate, non una parola si è letta su tanti quotidiani. E invece spero che la pubblica opinione adesso spinga tutti ad andare in fondo».
G.D.D.: «Ci hanno raccontato un’altra storia, una storia che non esisteva. Ora è il momento di arrivare alla verità».
Il bilancio delle devastanti inondazioni causate dalla tempesta che ha colpito il Texas centrale sale ad almeno 51 morti. Ventisette i dispersi.Il dato ufficiale fornito dalle autorità parla ancora di 43 vittime ed è probabile aumenti nella zona più colpita della contea di Kerr. Sempre le autorità sabato in una conferenza stampa hanno dichiarato che 15 delle vittime erano bambini. Il governatore Greg Abbott ha promesso che le squadre avrebbero lavorato 24 ore su 24 per soccorrere e recuperare le vittime. Ancora da ufficializzare il numero delle persone disperse, a parte 27 bambine che si trovavano in un campo estivo femminile.