L’uno-due che disfa e ritrasforma in poltiglia liquida la panna che era stata faticosamente montata nelle cucine di Repubblica (titolo sparato in primapagina: “Il candidato Draghi”) è arrivato nel primissimo pomeriggio di ieri. L’ex capo della Bce ed ex primo ministro italiano - usando la formula delle “fonti vicine a Mario Draghi” - ha smentito tutto all’Adnkronos, facendo sapere che «non è interessato alla presidenza della Commissione Ue».
A stretto giro di posta, è arrivata una secchiata d’acqua gelida pure dall’Eliseo (Repubblica aveva infatti attribuito a Emmanuel Macron la paternità del piano): «Non abbiamo nessun commento da fare», è stata la lapidaria reazione di Parigi. Nel tentativo un po’ disperato di rimontare la panna, già nella serata di ieri c’era chi nella Roma che non ama il governo Meloni - si aggrappava a una doppia speranza: che Draghi non potesse certo (con sette-otto mesi di anticipo) ammettere il suo interesse alla carica, e che Macron non volesse lasciare la propria impronta digitale su un’operazione gestita malissimo dall’ammiraglia del gruppo Gedi.
Il punto infatti sta proprio qui, nelle modalità sgangherate e faziose con cui ieri Repubblica ha lanciato la corsa di Draghi, il quale dev’essere peraltro comprensibilmente ultrasensibile dopo l’esito non trionfale della sua ipotetica candidatura al Quirinale. I lettori ricorderanno l’inizio e la fine di quella vicenda, con Draghi che aprì alla prospettiva nella conferenza di fine anno del 22 dicembre del 2021 («Sono un nonno al servizio delle istituzioni»), e Sergio Mattarella che risultò rieletto il 29 gennaio 2022. Ascesa e caduta di una candidatura in soli 38 giorni. Mettiamola così, tornando all’oggi. Qualunque cosa si pensi di una possibile futura presenza di Mario Draghi a Bruxelles, ieri Repubblica è riuscita a condensare - in un colpo solo- almeno sei mosse assolutamente controproducenti.
Primo. Presentare quella candidatura come voluta dalla Francia e già accettata dalla Germania. E l’Italia cosa sarebbe, nella rappresentazione di Repubblica? Sarebbe la consueta Italietta marginale e gregaria, il cui “bene” verrebbe preventivamente deciso da Parigi e Berlino. Solito schema: gli altri decidono, e per noi rimarrebbero solo vincolo esterno e flagellazione. Figurarsi se una come Giorgia Meloni può adeguarsi a una narrazione di questo tipo.
Secondo. Presentare Meloni stessa o come una leader all’angolo che può solo dire sì, o come una sabotatrice che affossa la candidatura di SuperMario. A occhio e croce, Meloni e Draghi, tra i quali si ricordano sempre e solo rapporti civili e reciprocamente rispettosi (sia quando la Meloni era all’opposizione sia al momento del passaggio di consegne a Palazzo Chigi) avranno sorriso di una rappresentazione così rozza.
Terzo. Presentare Draghi (e qui a onor del vero ha contribuito pure l’interessato nelle sue ultime uscite pubbliche) in una veste quasi da ultrà della costruzione di un “superstato” europeo, e quindi di una integrazione politica sempre più spinta dei 27 paesi membri. Quella prospettiva è venuta meno da tempo, come si sa: un po’ tutti i governi non solo quelli di destra - sanno che le opinioni pubbliche nazionali mal tollerano l’idea di politiche imposte dal centralismo di Bruxelles, in una logica omogeneizzante, con identiche ricette dalla Finlandia al Portogallo, dalla Germania alla Grecia. Tutti comprendono semmai che, per salvare il salvabile di un progetto Ue già in crisi, occorre che l’Unione faccia meno cose, e sia più rispettosa delle autonomie e delle diversità nazionali. Ecco, presentare Draghi come campione e portavoce della linea “Più Europa” significherebbe renderlo poco accettabile per i liberalconservatori di numerosi paesi europei.
Quarto. Dare per scontata l’idea che l’Italia non possa esprimere nessun altro Commissario Ue tranne Draghi. Ma questo significherebbe amputare preventivamente l’agibilità politica del governo, privandolo della possibilità di indicare un ministro del governo Meloni o un governatore regionale o un’altra personalità politica: ed è una condizione che nessun esecutivo europeo potrebbe accettare. Immaginate se qualcuno pretendesse di ipotecare la possibilità di nomina di un commissario Ue da parte della Francia del presidente Macron o della Germania del cancelliere Scholz. Parigi e Berlino reagirebbero con fastidio e stupore.
Quinto. Sottovalutare le ambizioni di Ursula von der Leyen e di Roberta Metsola, che hanno peraltro avviato da mesi un dialogo fitto proprio con la Meloni. Per quale ragione queste tre protagoniste dovrebbero subire un’operazione pensata da altri sopra le loro teste? Oppure, rovesciando la prospettiva: se uno vuole costruire un’operazione-Draghi efficace, che arrivi al risultato, come fa a prescindere dal consenso del terzetto Meloni-von der Leyen-Metsola?
Sesto. Il sesto e ultimo “capolavoro” di Repubblica è stato quello, forzando sulla candidatura a presiedere la Commissione Ue, di far apparire come un ripiego quella che invece potrebbe essere una soluzione forse più realistica e praticabile, nella cornice che abbiamo descritto, e cioè una eventuale candidatura draghiana a presiedere un’altra istituzione Ue, e cioè il Consiglio europeo, oggi guidato dal discusso belga Charles Michel. Insomma, nei tempi e nei modi, Rep ha steso ieri una specie di manuale su come non si lancia una candidatura. Non rendendo un buon servizio in primo luogo a un protagonista indubbiamente autorevole come Draghi, usato- né più né meno di come la stampa progressista fa ogni giorno con figure assai meno rilevanti - come una clava da dare in testa al governo di centrodestra. C’è da pensare che il primo a non volere un esito di questo genere sia Draghi stesso, che non ne trarrebbe alcun beneficio.