Michela Murgia è nata nel 1972 a Cabras, in Sardegna. Il vostro cronista è nato qualche anno prima (1968) nello stesso paese galleggiante tra mare e stagno, laguna e golfo. La cosa non ha rilevanza alcuna per la storia della letteratura, ma ha un suo significato per le biografie, il detto, il contraddetto e soprattutto il non detto. Con Michela ho condiviso i luoghi dell’infanzia, il paese, l’isola, la tradizione orale e l’abitare nella lingua italiana pensando inesorabilmente in sardo (Francesco Cossiga mi diceva: «Mario, noi sardi nell’italiano ci abitiamo»). Chiusa per entrambi la stagione del gioco in piazza Stagno Pontis, dove ragazzini e ragazzine si mischiavano, si confondevano, si annusavano, per ogni piccola canaglia di quella banda iniziò un percorso verso quella che dopo si rivelò una chimera, la maturità, figuriamoci. Ci siamo persi di vista (e di vita), incrociati, sempre scrutati da lontano, con Michela, sapendo di avere nuotato (una cosa che è per sempre) nello strano mondo metafisico di Cabras, la centralità dell’essere sardi. Durante il festival di Anteprime-Ti racconto il mio prossimo libro nel 2012 a Pietrasanta, una giornalista mi fece una domanda a cui era impossibile rispondere: «Ho visto adesso la Murgia, ma cosa avete voi di Cabras?». Non l’ho mai capito e anche per questo rebus irrisolto mi ero promesso di non scrivere una riga su Michela, ci sono di mezzo famiglie, amicizie remote, i silenzi di una comunità rumorosa (a Cabras è sempre festha manna) dove tutti di dritto e di rovescio ti conoscono e ti giudicano. Poi è successo di tutto, la morte, i funerali, i pugni chiusi, la “vampirizzazione” ormai ineludibile, una “pasolinizzazione” post-datata della sua figura di donna e di scrittrice, la spremitura politica di Murgia, la nascita dei “murgianti” come categoria dello spirito e naturalmente l’interpretazione sacerdotale dei testi da parte dei “murgisti”, la sua posterizzazione à la Andy Warhol. Nel diluvio dei postumi, qualcosa sulla famiglia, la questione femminile (e maschile), la maternità, il patriarcato e la Sardegna è andato completamente smarrito. Il recupero è un’operazione da palombaro, una sorta di recherche per la quale servirebbe Proust, non un cronista. Dunque, mi arrangerò con i pochi ferri del mestiere e la parola chiave: il patriarcato. Quest’ultima parola è il chiodo dove appendere il quadro: la società sarda è matriarcale. Con buona pace delle femministe, nell’isola comandano da sempre le donne. Affermare il contrario è atto sacrilego, non c’è potere debole, c’è la donna sarda (lontanissima da quella descritta dalla Murgia). È sempre stato così, è una storia che parte dal culto della Dea Madre dell’epoca pre-nuragica e nuragica e arriva fino a noi. Il governo e la decisione dei destini della famiglia (e dell’intera comunità) sono sempre stati della donna. Poche cose mi sono state chiare fin da bambino, una era stampata con il fuoco vivo della quotidianità, nell’ordinario e nello straordinario, tzia Desolina, tzia Peppica, tzia Marianna, tzia Giovannica, tzia Bonariedda, tzia Lughia, tzia Boricca, tzia Mallena, tzia Grassietta, tzia Vittoria, non avrebbero mai preso alcun ordine da un uomo.
COMANDANTI
Loro avevano lo scettro e loro comandavano. Tzia Marianna metteva in riga tziu Alfonsu che avrebbe spaventato chiunque, quell’omone, tzia Desolina era un generale dei Carabinieri che guidava una legione con il solo sguardo, tzia Giovannica era al volante del trattore, tzia Vittoria fulminava Peppantoi in pescheria ogni mattina, tzia Lughia metteva il sindaco a tacere. Patriarcato? La Sardegna nella seconda metà del Trecento era governata da una giudicessa, Eleonora d’Arborea. E il premio Nobel per la letteratura nel 1926 lo vinse una grande scrittrice di Nuoro, Grazia Deledda (di cui nessuno scrittore nato in Sardegna può fare a meno, compresa la Murgia). Nella società agro-pastorale, in Barbagia, il potere è sempre stato nelle mani delle donne. E mentre oggi si fanno grandi discussioni sull’uso del cognome della madre, in Sardegna nel 1600 nei registri delle parrocchie c’era il matronimico, il cognome della mamma. Altroché disegni di legge e pamphlet proto -femministi pubblicati nel post-femminismo. Dettagli. Michela Murgia ha una storia familiare e personale diversa, va rispettata e ricordata, ma non è universale. Il fascismo, l’antifascismo, le famiglie queer, il femminismo militante, da battaglia permanente di Murgia che si faceva chiamare Kelledda, mi facevano sorridere, perché erano lo sberleffo, l’opera rumorista di una sagoma che aveva sa beffa che le scorreva nelle vene, una cosa che nel posto dove siamo cresciuti, a Cabras, è la regola, la presa in giro, lo sfottere perché alla fine qualcosa resterà, come minimo un soprannome che ti restava attaccato addosso per sempre. Era una questione pre-politica, nuragica, e per questa ragione fuori dallo schema mentale dei “murgisti”del continente, di quella penisola che oggi compila i glossari dei suoi testi e ci inonda di “interpretazioni autentiche”.
L’INCONTRO
Tanti anni fa incontrai Michela al bar dell’Hotel Locarno, a Roma. Era una bella serata di vecchi tempi andati, ci davamo tutti dentro con il Gin Martini. Sorriso, disapprovazione automatica per le distanti idee di entrambi, due battute di tennis al volo, una domanda e una risposta di dritto che è la condizione dell’essere di Cabras. Servizio: «Che fai?». Punto da fondo campo: «Faccio casino». Ecco, quel «fare casino» che Murgia evoca anche nel libro Dare la vita (in libreria da ieri per Rizzoli, sarà un bestseller) non è il programma politico di quelli che oggi inseguono i coriandoli dell’eredità di Michela sperando di ricavarne luce per se stessi, è una condizione irripetibile, una singolarità che non può illuminare un Roberto Saviano, una Chiara Valerio, i figli dell’anima, quelli di uno, nessuno, centomila, i nipotini senza talento che s’attaccano allo scoglio come cozze.
Dell’opera di Michela Murgia si sono presi i pezzi più convenienti per lo scopo del momento, il realismo magico della narratrice è scomparso, sostituito dalla provocazione, un programma che parte dall’arte per l’arte e finisce nell’arte per la politica, o forse la biopolitica, secondo quello che sarà per lungo tempo il penultimo impaginato.
IL MIO SINIS
La Murgia ha avuto un grande successo, ma nell’eccesso dove si moltiplicano gli scarti di lavorazione. Così la verità dell’inizio e della fine in Accabadora è evaporato, l’umorismo de L’incontro (che si svolge a “Crabas”) è cancellato, la trama e l’intreccio del romanziere svaniscono, i luoghi hanno cominciato a sbiadirsi e la Sardegna e Cabras (che lei descriveva sul suo blog Il mio Sinis), il posto dove tutto è iniziato, è diventata una misteriosa Atlantide, un riferimento di mitologia astratta che veniva citata come esca dell’esotico. Diranno i posteri della letteratura incipriata che a un certo punto s’era emancipata come scrittrice e il folklore del racconto avrebbe stonato con la biografia in piena rivoluzione. Alla fine Michela si è allontanata dalla letteratura per entrare in un mondo dove non c’erano più sfumature, contraddizioni, preghiere non esaudite, ma solo certezze, dogmi, anatemi e scomuniche. La sua prematura scomparsa è stata una tragedia perché non ha avuto il tempo di (ri)pensarsi. Il resto è l’eredità, la serialità in azione, la riproducibilità dell’opera d’arte in rotativa, arriva un altro libro e poi un altro ancora, a cura di questo e di quello, è l’industriarsi dei nani-scriba che hanno preso d’assalto il palcoscenico allo scoccare dell’ora senz’ombra.