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Daniele Capezzone: le toghe che sbagliano non devono cavarsela

di Daniele Capezzone mercoledì 10 gennaio 2024

4' di lettura

Il primo sì alla revisione del processo che ha visto per tre volte condannati Olindo Romano e Rosa Bazzi non è solo una grande notizia: è una notizia letteralmente enorme. Non credete - oggi - a tutti quelli che vi racconteranno di aver avuto dubbi sulla loro colpevolezza. A suo tempo, i veri garantisti si contarono su poche dita di una sola mano: tra questi, il fondatore di Libero Vittorio Feltri.

Per il resto, con rare e meritorie eccezioni, dopo l’orribile omicidio plurimo (4 morti) dell’11 dicembre 2006, entrò subito in funzione un poderoso e implacabile plotone di esecuzione anche mediatico, che iniziò a sparare e non si è più fermato. Nulla fu capace di suscitare dubbi rispetto alla versione unica (cioè la colpevolezza di Rosa e Olindo): non fu presa in considerazione l’ipotesi (che invece era fondatissima) di un possibile regolamento di conti tra bande albanesi e tunisine, o comunque di una ritorsione contro la famiglia di Azouz Marzouk; non fu adeguatamente considerato il fatto che il Ris di Parma non avesse trovato tracce dei presunti colpevoli, che dunque non era affatto certo si trovassero sulla scena del crimine; non furono svolte perizie psichiatriche (se non dopo moltissimi anni). L’impianto processuale - per tre volte - fu fondato in primo luogo sulle “confessioni” di Rosa e Olindo, in realtà contraddittorie, piene di lacune e di imprecisioni, e forse animate (stiamo parlando di persone con evidenti limiti anche cognitivi) dalla speranza per lei di cavarsela e per lui di rivedere presto sua moglie.

Un altro “pilastro” fu rappresentato dalla testimonianza di un sopravvissuto purtroppo piuttosto discutibile per le modalità con cui fu ottenuta e raccolta. Sintetizzo rozzamente: a destra, si dimenticò il garantismo pur tante volte proclamato; a sinistra, nessuno si pose il dubbio che a persone povere e palesemente non attrezzate si potesse- per così direfare di tutto.
Risultato? Pochi coraggiosi hanno tenuto accesa una fiammella, fino alla meritoria trasmissione speciale delle Jene, qualche mese fa, poi diventata un libro (“Erba”, edizioni Piemme) di Antonino Monteleone e Francesco Priano. Da lì è ripartita la macchina della difesa fino al risultato di ieri.

Restano due considerazioni da fare. La prima ha a che fare con il necessario rilancio della responsabilità civile dei magistrati, già votata (anzi, stravotata) dagli italiani nel referendum voluto da Enzo Tortora e Marco Pannella nel 1987, ma poi - in Parlamento - attenuata, per non dire annullata. Non si capisce per quale ragione qualsiasi altro professionista debba rispondere degli errori commessi con dolo o colpa grave, mentre per i magistrati questo non debba praticamente valere. La seconda considerazione - ancora più inquietante ha a che fare con la prassi bestiale del “processo mediatico”, a cui tutti ci siamo abituati e piegati. Diciamolo chiaramente: prim’ancora delle tre condanne nelle aule di giustizia, Rosa e Olindo erano già “mostri conclamati” per il trattamento mediatico ricevuto. La loro colpevolezza divenne fonte inesauribile di gag, di battute, perfino di cori negli stadi. Dubitare era quasi impossibile.
Diciamocelo chiaramente: questa vicenda illustra un rapporto ormai trentennale tra procure e organi di informazione, il legame tra chi è in possesso di notizie ultrasensibili e chi può pubblicarle, con uno “scambio” che ha queste caratteristiche: zero fatica (basta il copia e incolla), alto rendimento, immunità sul piano legale.
E il conto chi lo paga? Il malcapitato (in questo caso: i malcapitati) che si trova a essere accusato. Non giriamoci intorno: se un’indagine dura mesi e mesi prima del processo, e se - in tutta quella fase circola una sola versione, peraltro dotata di una potenza suggestiva enorme, il diritto alla difesa risulta distrutto nella sostanza prim’ancora che il percorso giudiziario inizi, cioè prim’ancora che gli avvocati possano toccare palla.
L’accusato – in questo caso, i due “mostri” – è completamente solo e nudo contro procure e media. E ovviamente ha già perso, anzi è già morto.
Una ricerca dell’Unione delle Camere Penali, analizzando migliaia di articoli di stampa sulle più diverse vicende giudiziarie, ha concluso che, nella fase delle indagini, la difesa non ha a disposizione più del 2% dello spazio: c’è una sola voce che possa essere ascoltata, una sola versione che possa essere conosciuta e diffusa. Questa situazione è moralmente e civilmente insostenibile. Sarà bene che i media ricordino che i poteri da sottoporre al vaglio critico non sono solo due, cioè l’esecutivo e il legislativo, ma che pure l’attività del potere giudiziario deve essere adeguatamente scrutinata. E anche l’opinione pubblica deve allenarsi a dubitare: oggi esiste solo il “mercato della colpevolezza”. Occorre che alcuni coraggiosi aprano- per così dire - il “mercato del dubbio”. In questo, va detto, i social non aiutano: ci siamo tutti abituati alla ricerca dei like, del consenso, e - al contrario - il dissenso e le posizioni controcorrente sono temute, sono rischiose, possono procurare isolamento. Che aspettiamo ad accorgerci di essere su una china pericolosa? 

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