Quanto ci manca Paolo Isotta, critico musicale che alla seconda arte dedicò la vita e i libri, coltissimo, torrenziale, cantore del mondo artistico al limite dell’insulto, indipendente fino all’irritante. Lui, che la musica la prendeva talmente sul serio da riuscire a riderne (“Quamquam ridentem dicere verum quid vetat?”, Che cosa vieta di dire la verità ridendo?), si sarebbe accorto che il Don Giovanni è un dramma giocoso e ci avrebbe avvertito che dell’Opera, al bar, sarebbe meglio non parlare. Non solo perché nell’epoca del #MeToo (ancora, sì) ogni parola su un argomento in cui sia coinvolto il femminile può scatenare l’inferno – e l’Opera è donna, dice Quirino Principe, decano degli storici della musica italiani – ma perché nella migliore delle ipotesi non aiuta ad affrontare i problemi, nella peggiore si fa del male alle cause che difendono.
Repubblica, testata che si è autoproclamata Giovanna D’Arco delle “quote rosa” quando non si tratta di sfottere il direttore d’orchestra Beatrice Venezi per pubblicità tricologiche, ieri titolava “Processo a Don Giovanni: ma oggi è ancora possibile elencare le conquiste in un catalogo?”, articolo in cui si racconta della rilettura dell’opera di Mozart da parte del regista Mario Martone, spettacolo in scena al San Carlo di Napoli fino al 27 febbraio.
Ennesimo episodio dell’isteria collettiva che trova maniaci ovunque, il pezzo si concentra sul famoso catalogo delle donne letto dal servitore Leporello a Donna Elvira, sedotta da Don Giovanni che già mira alla contadina Zerlina: “Eh! consolatevi: non siete voi, non foste e non sarete né la prima né l’ultima”, dice Leporello alla nobile, “Guardate questo non picciol libro: è tutto pieno dei nomi di sue belle (...) In Italia seicento e quaranta, in Lamagna duecento e trentuna, cento in Francia, in Turchia novantuna, ma in Ispagna son già mille e tre (...) Non si picca se sia ricca, se sia brutta, se sia bella: purché porti la gonnella, voi sapete quel che fa”.
Del Don Giovanni, personaggio della tradizione orale prima, della commedia poi, arrivato come “Dissoluto punito” nel testo di Lorenzo Da Ponte messo in musica da Mozart, c’è una bibliografia sconfinata: saperla tutta no, ma conoscerne qualcosa non guasta, anche per evitare di parlare di gameti quando i gameti non c’entrano. Ne scrisse Kierkegaard descrivendo il Don Giovanni come “seduttore”, massimo rappresentante dell’estetica contrapposta all’etica; gli studiosi si sono accapigliati sul perché della scelta del numero 1.003 (sarebbe simbolico: 1000 e 3 potrebbero indicare l’infinito e quindi la brama inesausta di donne); il musicologo Massimo Mila definì il personaggio mozartiano quale incarnazione dei problemi morali, ostinatamente perverso nel commettere il male. Insomma, il club del patriarcato ha arruolato anche Don Giovanni? O non è forse figura di fosca grandezza in quanto personaggio e non in quanto maschio? Non è forse incarnazione di colui che confonde il bisogno con il desiderio? E che cerca quindi una risposta laddove non la potrà trovare mai?
Il maggiore studioso del desiderio nel Novecento, Jacques Lacan, scriveva che: “Il desiderio dell’uomo è il desiderio di niente di nominabile”. E, sempre nel Novecento, ci mise del suo anche il filosofo Emmanuel Lévinas: “Il desiderio è desiderio inappagabile, non perché risponda a una fame indefinita ma perché non è richiesta di cibo (...) Il desiderio non coincide con il bisogno insoddisfatto, esso si situa al di là della soddisfazione e della insoddisfazione”. Se da un lato gradiremmo che la critica attuale smettesse di giudicare più le intenzioni degli artisti che le loro opere, dall’altro ci piacerebbe che le opere non venissero stravolte o rivisitate come fanno a Masterchef con le lasagne: sul palco arrivano produzioni che, oltre a essere un cumulo di incongruenze, sono un’offesa all’intelligenza degli spettatori. Riusciamo a capire che Don Giovanni non è un esempio di moralità, davvero, senza bisogno di costruire una tribuna popolare che condanna le nefandezze del protagonista, come succede nell’allestimento di Martone. Il regista, nel finale, fa distruggere il catalogo del dissoluto alle donne elencate nel “non picciol libro”: “è così che, una pagina alla volta, si disfa il patriarcato”, commenta la scrittrice Viola Ardone. No, così si distrugge soltanto, alla pari di coloro che bruciano i libri in piazza. È cogliendo l’universale nell’opera dell’umano che si disfa il patriarcato.