Chi pensava di liquidare il caso dello spionaggio politico come l’iniziativa di un singolo che “googolava” nelle banche dati segrete dello Stato alla ricerca di informazioni riservate “ad personam” resterà deluso, le versioni minimaliste (finirà tutto in pochi giorni e non ci saranno conseguenze) e quelle devianti (è un tema che riguarda la libertà di stampa) del misfatto sono evaporate ieri con le parole di Giovanni Melillo in Parlamento.
Il Procuratore nazionale antimafia ha confermato quanto Libero ha sostenuto fin dall’emergere dei fatti: le intrusioni illegali negli archivi telematici, la raccolta e distribuzione di informazioni sensibili, non sono l’opera di una sola persona, c’era un “sistema di relazioni”, “un mercato delle informazioni” e su questo si concentrerà l’indagine del procuratore Raffaele Cantone e di altri magistrati. L’affaire è una ragnatela e alla fine il ragno ha commesso un errore di tessitura che ha finito per scoprire la sua tana. Il dossieraggio è (anche) killeraggio politico, un fatto devastante.
Melillo di fronte alla Commissione antimafia ha sottolineato l’estrema gravità della vicenda, al punto da rivelare che “esiste un mercato delle informazioni riservate”. Siamo di fronte a un hackeraggio delle istituzioni, al tentativo di manipolare il gioco democratico.
Quando l’attività di raccolta delle informazioni riservate si concentra sulle biografie, i rapporti, la vita dei futuri ministri del governo Meloni - e questo accadde proprio nel periodo che precede la formazione dell’esecutivo l’intenzione non è quella di fare informazione, ma deformazione, lo scopo è quello di annullare la volontà popolare con un’operazione di disturbo che ha tutti gli elementi per essere definita eversiva. Non sono cose che si fanno in una redazione di giornale, questo tipo di operazioni sono frutto di “menti raffinatissime” che giocano a biliardo con le vite degli altri e gli organi dello Stato: assesto un colpo qua, la palla rotola là, ne colpisce una qui e poi... va in buca. Va scoperto a che livello giocavano i mandanti.
Tra le istituzioni colpite c’è prima di tutto la Procura nazionale antimafia e bene ha fatto Melillo durante l’audizione a difenderne il ruolo, perché questa storia ne incrina il prestigio, è un’ombra sulla gestione dell’ufficio, è un buco nero in una lunga storia di lotta alla criminalità. Sono motivi che sollecitano l’urgenza (testimoniata dalla richiesta di Melillo e Cantone di riferire alla Commissione antimafia e al Copasir) e un’indagine che deve essere severa, estesa, profonda. Severa, perché i fatti sono gravi fin dalle prime evidenze; estesa, perché nessuno crede all’impresa di un singolo sottufficiale della Guardia di Finanza, Pasquale Striano; profonda, perché non resti alcuna pianta velenosa nel sottobosco da cui proviene una putrefatta essenza. Non c’è solo il fatto passato, l’intrusione illegale, c’è anche il rischio dell’inquinamento delle prove, delle triangolazioni per coprire qualcuno (in Italia e all’estero) di azioni di depistaggio.
Sul piano istituzionale, l’audizione di Melillo è stata inappuntabile, carica di significato, composta e nello stesso tempo tragica, un vero e proprio allarme sulla sicurezza dello Stato, l’integrità degli archivi digitali, la limpidezza che rischia di mancare (è già mancata) alla competizione politica. C’è solo una nota stonata: la presenza all’audizione di Melillo del parlamentare Federico Cafiero De Raho, ex Procuratore nazionale antimafia, il capo dell’ufficio quando si sono consumati i fatti che hanno condotto all’apertura dell’indagine. De Raho ha rivendicato “il diritto” di partecipare alla riunione della Commissione Antimafia di cui fa parte, non ci sono dubbi che egli potesse farlo, ma la politica non è solo forma, è sostanza. E nella sostanza, l’onorevole De Raho di oggi è il procuratore De Raho di ieri che le parole di Melillo evocavano nella sua vita precedente di capo della Direzione nazionale antimafia.
Lo scrivo con il rispetto dovuto alla persona e alla sua biografia, De Raho doveva compiere un atto di bon ton parlamentare: “sollevare” i deputati e i senatori - e il procuratore Melillo - dalla sua presenza nel momento in cui si parla di vicende che riguardano l’organismo di cui era il capo. Nessuno mette in dubbio le qualità dell’uomo e del magistrato De Raho, ma è una questione di sensibilità istituzionale che è mancata, c’è da augurarsi che non si ripeta anche quando oggi sarà ascoltato chi svolge le indagini sull’ufficio che fu guidato da De Raho, il procuratore Raffaele Cantone.
Siamo solo all’inizio di una storia melmosa che sta svelando una palude dove si inabissa la verità. Per il momento, abbiamo alcuni punti fermi e da questi si possono già trarre delle importanti lezioni da trasformare in azioni rapide: 1. Gli uffici della Direzione nazionale antimafia vanno riorganizzati, il governo e il Parlamento dovranno intervenire nella linea che il procuratore Melillo ha indicato durante l’audizione, la Direzione nazionale antimafia deve funzionare al meglio; 2. Il sistema nervoso dello Stato la sua rete digitale - ha bisogno a sua volta di un monitoraggio costante e di una ridefinizione dei protocolli di sicurezza, gli uffici che hanno accesso a dati sensibili sono tanti a livello centrale e periferico, la struttura informatica deve essere protetta da attacchi esterni e interni, è una questione di sicurezza nazionale; 3. Il personale che ha accesso ai dati sensibili dei cittadini italiani deve ruotare periodicamente negli incarichi, non si possono creare “sultanati” delle informazioni riservate, sono un potenziale pericolo per la Repubblica; 4. I documenti devono essere “battezzati” e tracciabili nelle varie fasi di creazione e gestione, questo non riguarda solo l’accesso, ma anche l’estrazione e la loro forma di lettura/ascolto/visione finale, che sia digitale, cartacea o su altro supporto.
Siamo entrati da tempo nell’era della sorveglianza e dei nuovi poteri (chi vuole approfondire il tema può leggere un libro di Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza), lo Stato ha strumenti raffinati per “profilare” le persone, scandagliare la vita di ognuno di noi, ma se l’hardware e il software, la cassetta degli attrezzi per svolgere le indagini, finiscono nelle mani sbagliate, diventano un pericolo letale per la democrazia. La magistratura farà le sue indagini, alla politica spetta una funzione di indirizzo (da tradurre in norme) a cui non può sottrarsi. Su questa storia bisogna andare a fondo, per rompere il sistema che lavora per “piratare” la democrazia, per non far colare a picco la fiducia dei cittadini nello Stato.