Premessa necessaria, ho riflettuto a lungo se scrivere o no questo pezzo. Per due ragioni. Nel 2009 curai il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, e quindi c’è sempre il rischio implicito di un confronto tra due idee di mostre completamente differenti. Da alcuni mesi, inoltre, rappresento una fondazione pubblica per l’arte, ruolo che richiede garbo istituzionale evitando qualsiasi conflitto d’interesse tra la presidenza, che necessita di equilibrio, e la critica, diritto che ciascuno di noi deve poter esercitare liberamente, a prescindere. Alla fine l’ho scritto e sono felice di poter parlare davvero bene del miglior Padiglione Italia almeno da quando è stato spostato al fondo dell’Arsenale, in uno spazio affascinante, difficile, sovradimensionato e soprattutto lontano.
Chissà che un domani non venga restituita maggior centralità alla nazione “padrona di casa”, nel frattempo godiamoci l’opera di Massimo Bartolini, artista serio, maturo, con il quale qualche volta mi sono trovato in disaccordo ma che qui, all’appuntamento decisivo in una carriera già ricca di soddisfazioni, ha dato il meglio di sé e il merito lo deve condividere con il curatore Luca Cerizza che lo segue da una vita ed è stato capace di stimolarlo apparecchiando insieme una regia molto complessa. Rispetto al caos colorato, disordinato e vitalistico di “Stranieri ovunque”, questo Padiglione Italia dall’enigmatico titolo “Due qui/To hear” è quasi un momento detox, una pausa che può essere anche lunga se si accetta di starci dentro, allontanarsi dall’orgia visiva per riflettere sul fatto che i sensi a nostra disposizione sono cinque, in particolare quello dell’udito concorre alla composizione di un’opera d’arte sinestetica e ricca di significati non subito spiattellati là come avviene nella mostra principale, ma da assorbire, catturare. Nella prima tesa (che in realtà è la seconda ma si può entrare da entrambi i lati) l’unica immagine in mostra, una piccola scultura lignea di Bodhisattva pensieroso, «un uomo - racconta Bartolini- il quale avendo raggiunto l’illuminazione, vi rinuncia volontariamente per indicare la via agli altri uomini».
Tale oggetto votivo è appoggiato su una barra di legno lunga 25 metri, una colonna infinita posta in orizzontale che in realtà è una canna d’organo il cui suono mosso dall’aria si diffonde nell’ambiente. Guardi l’opera, ti stupisci per come l’artista sia riuscito con un unico gesto a dividere in due lo spazio, resti in ascolto, ti concentri, figurandoti come potrebbe essere bello e intenso questo momento se il Padiglione si svuotasse del fiume umano nei giorni dell’inaugurazione e tu fossi da solo, a tu per tu con l’opera. Dal vuoto al pieno, la seconda tesa ospita una grande installazione claustrofobica realizzata con tubi e ponteggi modificati in modo da suonare come un organo, la cui struttura è disegnata seguendo la pianta di un ipotetico giardino barocco all’italiana. Nel mezzo del percorso labirintico, ecco una fontana che, come in ogni piazza, funziona da punto di raccordo e incontro, con una differenza non lieve, qui l’acqua non è ferma, si muove come un’onda anomala non minacciosa però straniante. E proprio in questo sommovimento sta la contraddizione di Massimo Bartolini, elegante e minimalista per un verso, viscerale e terroso per l’altro. Il curatore Luca Cerizza ha giustamente parlato di progetto polifonico per via del coinvolgimento di musicisti elettronici e sperimentali come l’americana Kali Malone e la nostra Caterina Barbieri che insieme hanno composto musiche originali, insieme all’ulteriore suggestione acustica suggerita, il coro per voci, campane e vibrafono “installato” nel giardino, dove il relax è d’obbligo, e scritto da Gavin Bryars insieme al figlio Yuri.
Polifonici sono anche gli interventi per la preziosa guida alla mostra, e tra questi il romanziere Tiziano Scarpa, il musicologo David Toop, autentico guru dell’elettronica, la disegnatrice per l’infanzia Nicoletta Costa. “Due qui/To hear” è un progetto molto complesso e articolato, di alto livello che finalmente può far competere la nostra arte sul piano internazionale, perciò dispiace leggere dichiarazioni sconcertanti su “tubi Innocenti”, edilizia cantieristica, su quanto sia costato l’intervento senza considerare il valore intrinseco dell’opera che in questo caso invece è molto elevato. Non ne indago le ragioni e mi limito a gioire per la bellezza del lavoro di Bartolini che è un artista italiano e ogni volta che un artista italiano può finalmente essere apprezzato nel mondo è il Paese intero a trarne vantaggio, dimostrandosi competitivo e credibile anche in un territorio così ostico come quello del contemporaneo.