Nell’Officina, lo studio di Gabriele d’Annunzio al Vittoriale degli Italiani, veglia una “testimone velata”, il calco in gesso del volto di Eleonora Duse, coperto da un fazzoletto di seta: Gabriele sosteneva di non poter lavorare, sotto gli occhi di Eleonora. Potrebbe sembrare il giochetto di un satiro (perché piazzare un busto sulla scrivania, per poi coprirlo?) se non fosse per una fotografia di Eleonora che il poeta ha messo addirittura accanto a quella - sacra- della madre, in un’altra stanza. Eleonora era anche l’unica delle tante donne del suo passato che ricordava spesso, tanto da fare ingelosire persino Aèlis, la governante-amante francese che stette con lui dal 1911 alla morte, nel 1938: la donna con la quale d’Annunzio trascorse più tempo in tutta la sua vita. Aèlis- che aveva visto passare centinaia di amanti, e a volte le aveva condivise con lui- non sapeva trattenere la gelosia retroattiva per l’attrice, che non aveva mai conosciuto: «Perché parlare sempre delle sofferenze della Duse?», scrisse con risentimento nel diario.
«Che cosa ha sofferto lei più delle altre? Le sofferenze della Duse consistevano in ciò che tutte le altre donne hanno accettato: amarlo tanto da sopportare le rivali. Non lo hanno fatto tutte?» Forse anche perché ha capito questo punto debole, Gabriele parla spesso di Eleonora a Aèlis: «È incredibile», le dice per esempio nel 1930, «che quasi tutte le donne commettano delle sciocchezze perché non ci leghiamo a loro. È stato così anche per la divina Duse. Mi spiace profanare la sua memoria, ma è stata colpa sua se mi sono staccato da lei». Credo sia vero. Tra le lettere, perdute, di Gabriele a Eleonora, se n’è salvata una del 17 luglio 1904, poco tempo dopo la rottura della relazione: «Il bisogno imperioso della vita violenta- della vita carnale, del piacere, del pericolo fisico, dell’allegrezza- mi hanno tratto lontano. E tu - che talvolta ti sei commossa fino alle lacrime dinanzi a un mio movimento istintivo come ti commuovi dinanzi alla fame di un animale o dinanzi allo sforzo d’una pianta per superare un muro triste - tu puoi farmi onta di questo bisogno?» La risposta gli giunse pochi giorni dopo: «Non ti difendere, figlio, perché io non ti accuso. Così è. Così sia».
E se lei conclude con una domanda retorica «Quale amore potrai tu trovare, degno e profondo, che vive solo di gaudio?» – lui proseguirà imperterrito con il suo bisogno «della vita violenta – della vita carnale, del piacere, del pericolo fisico, dell’allegrezza».
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A fine Ottocento era stata lei a cercarlo, senza avere nascosto a nessuno la sua predilezione per il poeta, che ha cinque anni meno di lei, e che ha letto con passione. Lo vuole incontrare e ci riesce con facilità grazie agli amici comuni. Dopo il primo incontro, gli manda un biglietto: «VEDO IL SOLE, e ringrazio tutte le buone forze della terra per avervi incontrato». Per molti biografi l’inizio del loro amore avvenne a Venezia il 26 settembre 1895, e fu celebrato con un leggendario amplesso, all’alba, dopo ore di romantica consunzione notturna per lei e un arrivo in gondola per lui. È facile immaginare quanto il pubblico mondiale venisse solleticato dall’amore fra i due divi, visto che la loro storia suscita ancora emozione, a 120 anni dalla fine, senza che la si sia ancora ben capita. È una leggenda faziosa e assai imprecisa quella per cui d’Annunzio avrebbe depredato alla Duse tutto il denaro, interessato solo a quello, rovinandola. L’aveva amata e - soprattutto- perfino ammirata davvero, e con lei costituì l’unico sodalizio artistico profondo della sua vita. Avevano un progetto comune di rinnovamento del teatro, e l’attrice- che era anche imprenditrice- fu fiera di interpretare le sue opere; per realizzare quel progetto Eleonora corse coscientemente un rischio, non soltanto economico, di compromettere una carriera ormai consolidata.
Non fu un rischio nel quale Gabriele la trasse con l’inganno, anche perché pensava di dare con le sue opere più di quanto ricevesse, e che il denaro, suo o altrui, non avesse importanza. Se fece soffrire “la Divina”, non fu certo per motivi economici. C’è da credere che l’abbia amata come suo alter ego, piuttosto che come donna: le donne erano quelle che ricordava appena. I detrattori, sempre vigili e zelanti nell’esercizio della morale antidannunziana, hanno sostenuto che non fu un vero amore. O meglio, non lo fu da parte del dissimulatore e del profittatore; l’infelice appassionata invece, credendoci fino in fondo, avrebbe logorato se stessa e la propria vita, consumata prima da quella passione, poi dalla tubercolosi. La questione è più complessa. Il loro, semmai, fu un incontro di reciproco interesse.
Si spiegano così gli inviti accorati dell’attrice a studiare, a scrivere, a rincorrere la gloria, una meta che li accomunava: «La vita scorre- afferrala nell’arte - figlio! - Non attardarti più sulla tua strada – non attardarti!», lo incitava nelle sue lettere, con la forza di una consigliera materna. Eleonora aveva un bisogno costante di cambiare, anche nell’attività teatrale: un rovello continuo, a cui la figura di d’Annunzio sembrava dare risposte esaltanti. Lui avrebbe potuto sollevarla dalla ripetizione di un repertorio che l’aveva stancata; lui avrebbe potuto soddisfare l’ansia di ideale e il desiderio di poesia che vibrava nella sua immaginazione sempre viva. A Gabriele, la prospettiva di quel sodalizio apparve quanto mai propizia. Il connubio artistico con la più celebrata attrice del tempo gli avrebbe permesso di avvicinare il pubblico ai suoi miti e alla sua poesia, oltre a sperimentarsi in un genere nuovo. Dopo le prove in versi e quelle del romanzo, gli mancava il riconoscimento come autore di drammi teatrali. Infine, sapeva quanta presa avrebbe avuto sul pubblico quell’unione.
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«Gettalo alla folla che lo attende!», così Eleonora incita Gabriele, quasi in uno sprone autolesionista, a proposito del Fuoco, il romanzo che nel 1900 d’Annunzio dedica alla loro vicenda. E sì che alcuni passaggi sono crudelissimi, come quello che si dilunga sul disgusto di Stenio-Gabriele nell’amplesso con l’amante: «La donna gli pesava sopra con tutto il suo peso, lo teneva allacciato e coperto, premeva la fronte contro l’omero di lui, nascosta il volto, con una stretta che non si allentava mai, indissolubile come quella del cadavere quando le sue braccia s’irrigidiscono intorno al vivente». E ancora: «Egli desiderava allora una creatura che gli somigliasse, un petto fresco a cui potesse comunicare le sue risa, due gambe veloci, due braccia pronte alla lotta, una preda da ghermire, una verginità da sforzare, una violenza da compiere». L’impresario di Eleonora l’ha messa in guardia, tutti vedranno nell’esausta figura di Foscarina la sua perfetta, indubitabile controfigura. Le consiglia di bloccare la pubblicazione e impedire così “un’azione poco bella”. Eleonora non cede: «Conosco il romanzo», gli risponde, «e ne ho autorizzata la stampa, perché la mia sofferenza, qualunque essa sia, non conta quando si tratta di dare un altro capolavoro alla letteratura italiana. E, poi, ho quarantun anni... e amo!» Al traduttore inglese del romanzo, che si fa scrupolo di lavorarci, «perché è la cagione di tanta sofferenza per un cuore nobile come il suo», ripete lo stesso concetto: «Pubblicate il romanzo. Un’opera d’arte vale più della sofferenza d’una creatura umana.»
L’amore e il dolore, dopo altre amarezze, anche professionali, erano stati tali che bastò un niente, poco più di un simbolo, a spezzare la loro storia. Nella primavera del 1904, Eleonora scoprì nella camera da letto due forcine dorate appartenenti a una bionda. I due si rividero soltanto, forse per caso, all’Albergo Cavour di Milano, nell’agosto del 1922. Gabriele le aveva scritto, poco prima: «Ora so, più certamente e più misticamente, che nessuna comunione con le creature umane – da che vivo e soffro – vale la comunione ch’io ebbi conte, ch’io ho con te».