La storia gioca sempre a dadi, si diverte a incrociare le biografie, le ascese e le cadute, i fatti e i misfatti. Siamo immersi in una campagna elettorale permanente, ogni giorno c’è un’emergenza, la maggior parte sono vicende che non hanno niente di straordinario, tranne il fatto che servono alla propaganda dei partiti. Ma ieri incrociando le notizie, ascoltandone il rumore di fondo, si è svelata una trama, un caotico disegno e la mano è quella della magistratura. Siamo a teatro, abbiamo davanti un’opera in tre atti.
Primo atto. A Genova un’inchiesta che coinvolge il presidente della Regione, Giovanni Toti, dopo quattro lunghi anni nel sottosuolo è esplosa in superficie, Toti in cambio di finanziamenti (regolarmente denunciati) avrebbe a “agevolato” gli imprenditori in una serie di pratiche. Toti è agli arresti domiciliari e la Regione Liguria guidata dal centrodestra, nonostante sia prevista la reggenza, ha un futuro incerto. Secondo atto. A Bari, un’altra indagine che va avanti da anni ha toccato personaggi dell’entourage della giunta della Regione Puglia guidata da Michele Emiliano, colpito al cuore la città di Bari, dove il sindaco Antonio Decaro non ha visto le infiltrazioni mafiose in una società partecipata dal Comune e si è ritrovato a balbettare di fronte alle rivelazioni di Emiliano su una visita a una parente di un boss mafioso. Per soprammercato, l’indagine ha rivelato che il presidente Emiliano conosceva informazioni riservate sulle indagini e le ha usate per far dimettere in anticipo un dirigente di una società (Alfonsino Pisicchio, ex commissario straordinario dell’Arti), poi finito sotto inchiesta. Emiliano non ha fatto un plissé, è rimasto alla guida di una maggioranza di centrosinistra, ha potuto decidere che la sua audizione in Antimafia può attendere, ieri ha ottenuto di nuovo la fiducia dal Consiglio regionale e resta al suo posto.
Intermezzo. A questo punto, la mano invisibile del drammaturgo si diverte a mischiare i copioni. Abbiamo due Regioni, due inchieste e due esiti diversi, ma con un gioco di carte su tavoli paralleli, una curiosa coincidenza, un calembour tra i personaggi in commedia: Michele Emiliano e Nicola Piacente. Da giovani procuratori pugliesi, entrambi appartenenti alla corrente di Magistratura democratica, si misero in luce nel pool antimafia di Brindisi con le indagini sulla Sacra Corona Unita, poi le loro strade si divisero. Emiliano scelse la politica, diventando un esponente di spicco del Partito democratico; Piacente continuò la sua carriera e oggi è il procuratore della Repubblica che a Genova ha ordinato l’arresto di Giovanni Toti e provocato il sottosopra politico in Liguria. Una storia dove tutto torna e tutto è casuale. «Non è un’inchiesta a orologeria», ha detto ieri il procuratore Piacente, mentre il ministro della Giustizia Carlo Nordio avanza dubbi «non sul momento in cui scatta il provvedimento cautelare rispetto all'imminenza delle elezioni» ma su «una misura rispetto al tempo in cui è stato commesso il reato ed è iniziata l'indagine». Piacente dice che «la nostra richiesta è di cinque mesi fa, del 27 dicembre. L'ordinanza è arrivata solo nella giornata di ieri ed è stata eseguita questa mattina». Resta il fatto che sono trascorsi quattro mesi, un tempo indubbiamente lungo per far scattare le manette, un intervallo non comprensibile se fosse stato davvero urgente, giustificato da gravi motivi, l’arresto di Toti.
Terzo atto. La strana rappresentazione della giornata prosegue, entra in scena una figura di primissimo piano nella storia giudiziaria e politica dell’Italia, un altro magistrato, l’ex pm di Milano Ilda Boccassini. La scena si svolge in Toscana, la procura di Firenze che ha indagato la Boccassini per non aver rivelato una fonte. L’inchiesta di Firenze è un filone di quella sui mandanti delle stragi mafiose del 1993, il centro dell’interesse degli investigatori è Silvio Berlusconi che a quanto pare non può riposare in pace. Boccassini nel dicembre del 2021 è stata interrogata per una fuga di notizie del 1994 (trent’anni fa) in un articolo di Giuseppe D’Avanzo su Repubblica. Boccassini secondo i pm di Firenze ha taciuto quella fonte di cui conoscerebbe l’identità. Boccassini ha taciuto con spirito cavalleresco, non ha mentito, ma per i magistrati questo è un reato.
Silvio Berlusconi è morto nel 2023, Giuseppe D’Avanzo nel 2011, la giustizia, la dea Dike, insegue i fantasmi nell’aldilà. E ora anche la Boccassini. Si potrebbe concludere che finiranno per arrestarsi tra loro, ma queste tre vicende intrecciate contengono una storia nelle storie: il cortocircuito tra politica e giustizia non è mai stato riparato, dal 1992, anno di Mani Pulite, l’equilibrio tra i poteri continua ad essere stravolto, la classe politica viene “selezionata” dalle inchieste, le assoluzioni tardive non valgono perché il processo e la sentenza si fanno in piazza, i governi cadono sull’altare sacrificale della giustizia che (forse) non è a orologeria, ma dopo oltre trent’anni continua a dettare i tempi delle ascese e cadute delle maggioranze.
Tre atti si riuniscono in un finale tutto da scrivere: non siamo ancora all’eterno ritorno dell’uguale, ma siamo di fronte a un passato che non muore mai.