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Giovanni Longoni: e se il processo all'Aja fosse l'occasione per incastrare i boia di Hamas?

di Giovanni Longoni mercoledì 22 maggio 2024

4' di lettura

La trovata del procuratore della Corte penale internazionale, Karim Ahmad Khan, che ha chiesto l’arresto dei vertici dello Stato ebraico ma anche dei tre massimi leader di Hamas, ha suscitato reazioni in singolare parallelismo: non potete mettere sullo stesso piano la vittima e il carnefice, hanno sbraitato i terroristi (loro si sentono le vittime). Più articolata la reazione da Gerusalemme, che da giorni si aspettava una cosa del genere, ma la sostanza è la stessa: noi siamo stati attaccati il 7 ottobre, noi siamo le vitti me. I commenti sulla stampa italiana invece sono stati piuttosto omogenei: indignazione e sarcasmo sui giornali conservatori (Giuliano Ferrara, Fiamma Nirenstein e, su Libero, Fausto Carioti), imbarazzo sui cosiddetti mainstream (cioè di sinistra che si atteggiano a moderati) per la reazione compatta di Israele a difesa del suo primo ministro, sostenuto da tutti, a partire da Benny Gantz che quegli stessi quotidiani il giorno prima avevano spacciato per l’uomo che avrebbe fatto saltare per aria il governo Netanyahu.

Premio spudoratezza a Paolo Garimberti che su Repubblica si rammarica perché il mandato di arresto rafforzerà internamente Bibi. Unica voce un po’ diversa, quella di Silvana Arbia, ex cancelliere della stessa Cpi, che in una intervista sulla Stampa dice: «La legge è legge. Conviene si costituiscano tutti». Detta però da una magistrato la frase non fa molto effetto. Giustamente gli israeliani si sentono ancora una volta traditi. Ma nemmeno Hamas sbaglia di tanto la sua analisi; lo dimostrano le reazioni sul web dei navigatori pro-palestinesi, indignati per la richiesta di Khan: ma come, essi dicono, non era un processo contro Israele per il genocidio a Gaza?

DOPPIO RISULTATO
Che il capo del Likud rischiasse grosso era emerso da tempo, tanto che gli americani si sarebbero mossi per evitare la cosa. A giudicare dal risultato, Biden, Blinken e quel manipolo di senatori repubblicani che avrebbero fatto pressioni sul procuratore, hanno ottenuto qualcosa. Khan - britannico, islamico e di origini pakistane - sembra la persona adatta a recepire segnali che vengono da Washington e Riad. Ed ecco che cosa hanno portato a casa gli Usa. In primo luogo hanno indebolito il “ribelle” Netanyahu e il suo partito cui appartiene anche il ministro della difesa, l’ottimo Gallant. In secondo luogo, hanno posto le basi perché la causa contro Israele possa trasformarsi in un processo contro Hamas. Da qui la reazione scomposta di Haniyeh e dei suoi tifosi antisemiti da tastiera.

Ora tocca a Israele giocarsi le sue carte. Se prosegue nel fare muro contro la Corte – e può farlo senza problemi dato che, come gli Stati Uniti, non ha mai accettato la giurisdizione della Cpi – al tempo stesso farà cadere anche la possibilità che gli Haniyeh e i Sinwar vengano giudicati per quei criminali che sono. Se invece accettasse anche solo di presentarsi al processo in un tribunale che giudica in base alle leggi internazionali mostrerebbe in modo inequivocabile chi è davvero l’unica democrazia del Medioriente e chi invece una banda di assassini venduti all’Iran. Questa mossa a sorpresa potrebbe disinnescare la sordida trappola in cui i suoi nemici hanno cercato di fare cadere lo Stato ebraico. C’è un altro aspetto della questione: la causa all’Aja nasce dalla denuncia del Sudafrica, Paese Brics ritenuto molto vicino alla Russia. Non pochi commentatori hanno visto in questo passo lo zampino di Putin interessato non tanto alla condanna dello Stato ebraico (che comunque sarebbe facilmente spendibile come una disfatta per l’America che sostiene Gerusalemme) quanto piuttosto al fallimento del processo, se venisse boicottato da Israele e Stati Uniti. Vedete?, direbbe il Cremlino, la giustizia internazionale e i tribunali dei diritti umani funzionano solo con i nemici dell’America – Norimberga, Milosevic, Putin -; invece quando alla sbarra dovrebbero finire i cocchi di Washington non se ne fa nulla.

LA SCELTA DI BIBI
Certo, i comandanti dei tagliagole non si sognano nemmeno di andare a deporre in Olanda. Il punto è sapere se Benjamin Netanyahu sarà invece pronto a quel passo e se Israele accetterebbe il rischio di finire in mezzo al cerchio dei lapidatori e soprattutto se lo accetterebbe il suo leader più maneggione e noto per gli scandali finanziari. In questa guerra i morti abbondano. Ci sono le vittime ebree massacrate il 7 ottobre e nei mesi successivi e quelle di Gaza, decine di migliaia a detta delle autorità locali, buttate sulla bilancia delle ragioni e dei torti dai capi terroristi che li hanno costretti a restare nelle loro case a morire sotto le bombe israeliane. Ma per Bibi c’è un cadavere che conta più di altri. Non è morto di recente ma nel 1976. È ovviamente suo fratello Yoni, il comandante del raid a Entebbe che portò alla liberazione di un centinaio di ostaggi ebrei. Yoni, il capo, fu l’unico a morire. L’ombra dell’eroe si è sempre stagliata sul destino di Bibi, bravo ma mai abbastanza. Ora sembra sia arrivato il suo turno di sacrificarsi per il suo popolo.

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