È morto William Alison Anders e possiamo immaginare che il suo nome lo ricorderà soprattutto chi ebbe in sorte di assistere a uno dei momenti più incredibili ed emozionanti dell’intero Novecento. Anders, nato nel 1933 a Hong Kong e vittima ieri di un incidente aereo vicino a Washington, fu il primo astronauta ad orbitare attorno alla luna, insieme ai colleghi Frank Borman e Jim Lovell a bordo dell’Apollo 8, missione durata appena sette giorni, ma soprattutto l’autore del primo scatto della terra vista dalla luna, un’immagine strepitosa e commovente, che a rivederla ancora oggi mette i brividi anche se di quel mondo pionieristico ed eroico, la guerra fredda trasferitasi nello spazio, «i russi... gli americani», come cantava Lucio Dalla, è rimasto ben poco.
Dopo il ritorno di Apollo 8, per l’allunaggio ci vorranno ancora sette mesi; intanto alla vigilia di Natale del 1968 i tre space cowboy posarono l’obiettivo su uno scenario che nessun film avrebbe mai potuto restituirci: in primo piano la crosta lunare, sabbiosa, arida, un cratere dietro l’altro, lontano nel buio della notte il nostro pianeta, composto per il 70% di acqua, abbandonato nell’universo eppure il solo luogo del sistema solare dove è possibile vivere. Di fronte a questo incommensurabile mistero ogni spiegazione presenta dei limiti, là dove non arriva la scienza c’è la metafisica e ancora più giù la fede.
E cosa scegliere continua a sollevare dubbi e domande irrisolte.
CAMBIO DI PROSPETTIVA
Soprattutto, quello della fine degli anni ’60 fu un tempo in cui delle cose esisteva un’unica immagine, uguale per tutti, un solo punto di vista che infatti veniva pubblicato su giornali, riviste, passato negli apparecchi televisivi in bianco e nero. Immagini persistenti che si imprimevano nella retina depositandosi nella memoria. Ci sarà una sola inquadratura della prima impronta di piede umano sulla luna, della bandiera stelle e strisce piantata nel suolo, tutti vedemmo quella, solo quella e non altro, ma lo scatto di Anders resta il più intenso, malinconico, spirituale, mozza il fiato, commuove, in particolare a noi, quelli della mia generazione cui da bambini fu concesso in via del tutto straordinaria di stare alzati la notte per seguire in tv le missioni spaziali fino al miracolo del 21 luglio 1969.
Eravamo troppo piccoli per capire cosa stesse succedendo sulla terra, però quell’immagine ci appartiene, è nostra, ci ha segnato profondamente, ha cambiato la percezione dello spazio e del tempo. I più grandi ci raccontarono di un Sessantotto violento nelle piazze e nelle università, ci dissero che in America erano stati uccisi Martin Luther King e Robert Kennedy, ma la rivoluzione del secondo XX° secolo è condensata nella foto dell’astronauta Anders, il resto risulta davvero relativo rispetto alla grandezza dell’infinito, allo sballo del sentirci un granello di polvere nell’universo.
Pier Paolo Pasolini, intellettuale rabdomantico e urticante, nel 1967 aveva già coniato l’espressione, “La terra vista dalla luna”, episodio del film “Le streghe” dove recita il vecchio Totò e su un cartello nel finale così si legge: “Morale: essere morti o essere vivi è la stessa cosa”. Scartabellando ancora nell’album della memoria, David Bowie pubblicherà “Space Oddity” pochi giorni prima dello sbarco sulla luna, “ground control to Major Tom”, non tutte le storie finiscono bene. Chi non fece in tempo a vedere quanto aveva largamente immaginato fu Lucio Fontana, inventore dello Spazialismo, ovvero l’arte già proiettata verso l’altrove.
MALINCONIA LUNARE
Storie così ce ne potrebbero essere tante e quelli della mia età le conoscono tutte; in più si portano dentro una specie di malinconia lunare – il lunatico è considerato alla stregua del pazzo, vittima di improvvise variazioni di umore - e ogni volta che ci ricapita davanti quella foto diventa inevitabile pensare quanto ci sia entrata dentro e che della Starship di Elon Mask non ci frega davvero nulla, un’esibizione muscolare imparagonabile a un nuovo destino per l’umanità segnato dal nostro tempo.
Eppure, già allora erano in molti convinti dell’inutilità di spendere milioni per visitare un posto senza tracce di vita e così nel 1970 Ernst Sthlingering, direttore scientifico della Nasa, fu costretto a rispondere alle obiezioni con una frase di inusitata poesia: «Di tutti i meravigliosi risultati raggiunti fino a ora dal programma spaziale, questa foto forse è la cosa più importante.
Ci ha aperto gli occhi sul fatto che la nostra Terra è una bellissima e preziosa isola sospesa nel vuoto, e che non c’è altro posto per noi in cui vivere se non il sottile strato di superficie del nostro pianeta, circondato dal nulla scuro dello spazio».