Come parlano i politici? Come sono cambiate le parole dei leader nel tempo? Quali sono itermini che caratterizzano i partiti? Il politichese della Prima Repubblica è stato davvero archiviato per sempre? A queste e a tante altre domande risponde Michele Cortelazzo, filologo, accademico ordinario della Crusca e collaboratore dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana che ha appena scritto La lingua della neopolitica (Treccani). Un saggio basato sull’osservatorio della politica e lo studio filologico dei discorsi dei leader (dal 2018 cura una rubrica quindicinale sul sito della Treccani dedicata al linguaggio dei politici).
Una ricerca scientifica tra le parole a partire dalla rivoluzione di Tangentopoli che mandò in pezzi la prima Repubblica e, con essa, frantumò l’idea della superiorità dei politici che si consideravano un’élite e si esprimevano attraverso un linguaggio incomprensibile ai più: il politichese. «L’espressione più nota, quasi un emblema, del politichese è “convergenze parallele”, attribuita al democristiano Aldo Moro, che si colloca bene in una serie di noti ossimori, come gli “equilibri più avanzati” del socialista Francesco De Martino, il “compromesso storico” del comunista Enrico Berlinguer e anche i “casti connubi” del democristiano Giulio Andreotti», spiega Cortelazzo.
Con la Seconda Repubblica i politici hanno cambiato registro, il disprezzo degli elettori ha causato una rivoluzione anche del linguaggio: non potendo più dire «votami perché sono meglio di te», hanno cominciato a chiedere voti perché «sono come te». «I politici non hanno più cercato di collocarsi al di sopra del proprio elettorato ma sul suo stesso piano, pretendendo di rappresentarne direttamente, senza mediazioni o rielaborazioni, i bisogni; hanno perciò scelto una lingua colloquiale, poco elaborata, immediatamente comprensibile, capace di esprimere con efficacia concetti semplici e concreti. Questo italiano è stato presto chiamato “gentese”, perché si riprometteva di parlare alla gente con la lingua della gente. Il palcoscenico primario del discorso politico si è spostato verso la televisione, ormai a colori, principalmente nei talk show, dove le discussioni erano (e sono tuttora) animate, colloquiali e dai toni spesso tutt’altro che controllati».
Poi è accaduto che questo rispecchiamento si è radicalizzato arrivando a un iper-rispecchiamento «che accarezza, e spesso fomenta, le consuetudini più deteriori della comunicazione attraverso i social, a cominciare dal cosiddetto hate speech, cioè la diffusione di espressioni di intolleranza nei confronti degli avversari, con l’utilizzo di insulti, il ricorso a stereotipi negativi». Ecco, quindi, il “socialese”.
L’ANALISI
Il professore ha poi analizzato le parole che contraddistinguono ciascun partito: «Fratelli d’Italia fa largo uso di lessico valoriale come “coerenza”, “coraggio”, “fiducia”, “fierezza”, “orgoglio”, “serietà”; odi parole recuperate quali “nazione”, “sovranismo” e “sovranità” (anche alimentare) e l’anglismo più famoso, “underdog”». A proposito del Pd, Cortelazzo osserva: «Dopo la verve linguistica di Pier Luigi Bersani - pensiamo a espressioni come “smacchiare il giaguaro” o “pettinare le bambole” - il partito ha vissuto un deficit di specificità lessicale con Enrico Letta (“cacciavite”, “occhi di tigre”, “front-runner”) risvegliandosi con Elly Schlein: “capibastone”, “cacicchi”, “vento della destra” ed “esternalizzazione”».
Lega e M5S? «Le parole della Lega sono “europirla”, “sbruffoncella”, “ruspa”, “giornaloni”, “intellettualoni”, “professoroni”, “rosiconi” o “zecche”. Il M5S è passato dal “vaffa” di Beppe Grillo alla “mangiatoia” poi soppiantata dalla “pacchia”, a “manine” che cambiano i provvedimenti approvati».Un discorso a parte merita Forza Italia: «Ha avuto un leader come Silvio Berlusconi che è stato un grande innovatore del linguaggio politico, artefice del passaggio dal “politichese” al “gentese”».
Passando dai partiti ai leader, il professore non ha dubbi: per lui il più abile affabulatore è Matteo Renzi. «Ha la capacità di fare discorsi di ampio respiro, porta la sua esperienza di boy scout abituato a lavorare in una comunità di amici e lo fa in modo avvincente. Sa coinvolgere l’uditorio e, come la Meloni, ha una enorme capacità seduttiva anche da un punto di vista linguistico. È un abile oratore e diffusore di parole».
Giorgia Meloni, secondo Cortelazzo, è riuscita comunicativamente a superare Berlusconi nella volontà di essere percepita vicino agli elettori. «La trovata di voler farsi votare alle Europee con il nome di battesimo rappresenta un passo avanti rispetto a quel “sono uno di voi” di Berlusconi che, in fin dei conti, veniva sempre visto come un imprenditore che ha avuto il successo che pochi avevano ottenuto. Meloni ha due linee comunicative: quella dello sdoganamento di parole un tempo escluse - non tanto Patria che era stata di Ciampi, ma “patriota” e “nazione” e quella di farsi riconoscere come “una di noi”. Anche la scelta di non cambiare il suo accento romanesco rientra in questa direzione. E la premia». Su Elly Schlein Cortelazzo si richiama a Corrado Augias che le ha detto che deve scaldare di più i cuori: «È accusata di essere poco chiara, eppure ha un tono conversazionale molto più semplice degli altri politici. Il suo problema è proprio questo: non riesce ad arrivare al pubblico. A differenza della Meloni che ha un forte accento “garbatelliano”, l’asetticità del modo di parlare la penalizza».
Matteo Salvini, invece, «ha fiuto per quello che può piacere agli elettori in un determinato momento, ma non ha una sua autonomia creativa. Ha una enorme capacità di prendere al volo le espressioni che possono essere coerenti con la sua posizione politica e rilanciarle. Tutti pensano che “ruspa”, “gufo”, “rosiconi” siano sue, ma il primo a usarle è stato Renzi. Nella percezione sono di Salvini perché lui le ha usate poi in modo martellante». Giuseppe Conte rimane un avvocato, «privilegia il lessico del suo mondo di provenienza. Ricordo, per esempio, in pandemia la parola “congiunti”... Ma i sondaggi dicono che, anche sotto la sua guida, il partito tiene bene la sua posizione». Il linguaggio di Carlo Calenda è penalizzato dall’incoerenza politica. «Pure lui ha un accento romano come Meloni e vuole trasmettere una concretezza del buonsenso, ma non buca.
Anche per come esercita la sua leadership. Cambia alleanza all’improvviso, si muove nel panorama politico con fughe in avanti, ritorni indietro, scartamenti laterali e questo non contribuisce a dargli una fisionomia linguistica definita. Che parola mi ricordo di Calenda? Nessuna».