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Lorenzo Cafarchio: l'eroismo di riscoprirsi padre nel mito di Ettore

di Lorenzo Cafarchio giovedì 27 giugno 2024

4' di lettura

«Uno degli slogan del '68 era niente padri né padroni. Il problema è che avendo tolto di mezzo i padri ora non abbiamo più uomini e, a breve, nemmeno figli». Matteo Carnieletto ci porta dritti al nocciolo della questione. Tra genitore 1 e genitore 2 la figura del fu capofamiglia attraversa un'epoca di profondo appannamento. «Gli uomini sono sempre più disorientati e, di conseguenza, non sanno come condurre le proprie vite e sono in balia di sé stessi. Mi sono quindi chiesto come sia potuto succedere tutto questo e la riposta che mi sono dato è che, da un po' di tempo a questa parte, si sta cercando in tutti i modi di annichilire la figura maschile perché rappresenta l'autorità. Un concetto insostenibile per un certo mondo e che, pertanto, deve essere eliminato». La penna de Il Giornale ha dato alle stampe, per i tipi di "Passaggio al Bosco", il volume Alla ricerca di Ettore. Manuale per riscoprire l'eroismo (perduto) dei padri (68 pp., 7,00 euro), con la prefazione di Alessandro Manzo, per cercare un antidoto all'era disgraziata in cui sono immersi i maschi innamorati tanto cari a Gianna Nannini.

L'architrave del testo ruota attorno a una frase di Charles Péguy, che apre il capitolo intitolato "Padre", e recita le seguenti parole: «C'è un solo avventuriero al mondo, e ciò si vede soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia». Il poeta francese, morto in combattimento durante la Prima guerra mondiale il 5 settembre 1914 nel corso della battaglia della Marna, scolpisce la figura più bistrattata dell'era moderna. Il papà è stato smantellato gesto dopo gesto, parola dopo parola, esempio dopo esempio fino a divenire, citando Claudio Risé, il grande assente di questo secolo. Per questo motivo arriva in nostro soccorso la figura di Ettore. Il ritorno al coraggio, non cieco e folle, ma l'amorevole essenza di chi conosce solo la strada della costruzione e del futuro. «Eroismo, quindi, quello vero. Consiste nel fare quello che si deve anche quando si ha paura, soprattutto quando si ha paura». Carnieletto ha lo sguardo focalizzato sull'Iliade di Omero. «È proprio quello che fa Ettore quando va a combattere contro Achille. Andromaca gli chiede di restare perché sa che morirà, ma a lui non importa. Va a combattere perché sa che quella è l'unica possibilità per difendere la città dall'ira di Achille e per provare a salvare l'onore di».

Virtù perse nel vento gelido di questo tempo. Sentimenti atrofizzati e recisi dal corpo, quasi come fossero un'onta, una vergogna da estirpare. Ed è Ettore che ci viene in soccorso. Sacrificarsi sapendo che la sconfitta delle membra è certa, mentre l'esempio dello spirito riecheggerà nel perenne sentire delle nostre genti. «E tu onore di piani, Ettore, avrai, ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finché il Sole risplenderà su le sciagure umane». Ugo Foscolo, attraverso le pagine "Dei sepolcri", ci sbatte in faccia l'arroganza dell'immortalità di Achille. Immortalità fatta di hybris, di tracotanza, di superbia che porta il piè veloce a essere ricordato per la sua ira funesta. Mentre Ettore si erge a uomo, nonostante la morte e la sconfitta. Diventa «colui che è in grado di dare non solo la vita, ma anche un'eredità spirituale buona». Padre di tutti perché è capace di amare davvero e «chi ama non muore mai». Quel corpo trascinato nella polvere, coperto di sangue e sudore, è la rappresentazione plastica della considerazione dell'uomo in questa era. Hybris che calpesta la pietas. Ma quel giorno, dopo quella tremenda battaglia dall'esito scontato, «Ettore muore nel corpo, Achille nell'anima». «Il mio avvicinamento a Ettore è stata una vera e propria ricerca», prosegue durante la nostra chiacchiera Carnieletto, «perché anch'io avevo bisogno di una strada da seguire. E l'ho trovata in questa figura che incarna alcune caratteristiche che ritengo fondamentali per ricostruire una sana virilità, fatta di forza al servizio del bene che si contrappone alla violenza fine a sé stessa». Un viaggio millenario che ci parla, anche ora, in maniera chiara e limpida. Sono questi gli insegnamenti che ci impongono di saper scegliere ogni volta, ogni giorno, in ogni circostanza. Essere uomini è quello a cui dobbiamo tendere, perché le scelte ponderate e rischiose allo stesso tempo, ma fortemente volute, ci guidano a diventare mariti, padri e modelli da seguire nel silenzio di stagioni sempre uguali, sempre diverse. L'autore, lo dice senza mezze parole, ci ricorda che siamo in crisi «e dobbiamo iniziare a dircelo con chiarezza e onestà». Troppo spesso «si tende a fare i mammi.

Ecco, non è il nostro compito. Ancora una volta ci aiuta Ettore, con suo figlio Astianatte. Lo prende e, come tutti i padri, lo lancia per aria. I due si guardano e il piccolo sorride perché sa che ci sono le braccia di suo padre a riafferrarlo. È questo che fa un padre: insegna che la vita è un rischio che va vissuto. Che bisogna accettare la possibilità di essere feriti per un bene più grande.Ma soprattutto il padre sogna cose grandi per suo figlio. Non è geloso, anzi come Ettore prega gli dei affinché i troiani, vedendo suo figlio, possano dire: costui è molto meglio del padre». Una prece tanto decisa quanto delicata, diventare uomini quando bruciano i bastioni dell'essere maestri delle vite che verranno.

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