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Lucia Esposito intervista Giovanni Maria Vian: "La cacciata di Viganò rischia di allargare le fratture nella Chiesa"

di Lucia Esposito sabato 6 luglio 2024

4' di lettura

Fa uno strano effetto sentir parlare di “scomunica” e di “scisma”, due parole che credevamo chiuse nei libri di storia e legate a lontanissime questioni medievali (a parte i casi più recenti di Lefebvre e Milingo), ma è da ieri che su tutti i siti e sui giornali rimbalza la notizia della scomunica dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò con l’accusa gravissima di scisma. Che cosa ha combinato? Perché e quando la Chiesa cattolica decide di infliggere la massima punizione a un suo prelato? Lo abbiamo chiesto allo storico Giovanni Maria Vian, che per undici anni è stato direttore de L’Osservatore Romano ed è autore de L’ultimo papa (19 euro, 232 pagine), che la Marcianum Press ha appena mandato in libreria. «Lo scisma per cui è stato scomunicato l’arcivescovo varesino consiste secondo la Santa Sede, in “affermazioni pubbliche dalle quali risulta una negazione degli elementi necessari per mantenere la comunione con la chiesa cattolica: negazione della legittimità di papa Francesco, rottura della comunione con lui e rifiuto del concilio Vaticano II”».

Che cosa ha fatto o detto concretamente? Può ricostruire la vicenda per chi di diritto canonico e di questioni ecclesiastiche conosce poco?
«Il caso esplose nel 2018, quando Viganò, diplomatico ormai in pensione, mentre il Papa era in Irlanda, lo accusò di essere stato a conoscenza degli abusi del cardinale americano Theodore McCarrick e nonostante questo di averlo coperto. Il prelato varesino chiese dunque le dimissioni del papa ed è poi è arrivato addirittura a definire Francesco “eretico” e “servo di Satana”. Una deriva evidente e inaccettabile».

Ci andò giù pesante. Eppure Viganò ha ricoperto posizioni di rilievo nella Chiesa, almeno a leggere il suo curriculum. C’è stato un preciso punto di rottura nei rapporti, secondo lei? Che idea si è fatto di questa sua inversione di rotta rispetto al Papa?
«Viganò ha ricoperto, tra le altre, la carica di ambasciatore del Papa in un paese importante come la Nigeria e poi in segreteria di Stato ha avuto l’incarico, di responsabilità e delicatissimo, di delegato per le rappresentanze pontificie, con accesso a molte carte riservate. Nel 2009 era stato nominato segretario generale del Governatorato vaticano, la struttura civile del piccolo stato, ma le sue denunce di corruzione avevano sollevato quasi subito contrasti e opposizioni interne. Viene così decisa, dopo soli due anni, la sua nomina come nunzio apostolico, cioè ambasciatore papale, a Washington, una rappresentanza diplomatica ovviamente molto importante».

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Lui è contento di questa nomina?
«L’arcivescovo la vive come una rimozione. E due anni dopo la fine della sua missione arriva la sua clamorosa denuncia: Papa Francesco avrebbe ignorato le accuse contro il cardinale McCarrick, arcivescovo emerito di Washington, di aver commesso ripetuti abusi su ragazzi minorenni e anzi lo avrebbe protetto. Presente a Roma durante la sede vacante successiva alla rinuncia di Benedetto XVI, il cardinale, allora ottantatreenne, non entrò in conclave ma negli anni successivi continuò a esercitare una notevole influenza. Ma poi, nel 2018, poche settimane prima della denuncia di Viganò, che fece ovviamente il giro del mondo, il potente prelato americano era stato escluso dal collegio dei cardinali e l’anno successivo è stato ridotto allo stato laicale. La Santa Sede ha poi pubblicato un dettagliato e sconvolgente rapporto di ben quattrocento pagine che si può leggere integralmente in rete».

La battaglia di Viganò contro il Pontefice può essere interpretata come un modo per togliersi qualche sassolino dalle scarpe? Una sorta di vendetta?
«Viganò non aveva gradito la nomina a Washington e l’allontanamento dal Vaticano. Ma nel 2023 il cardinale Julián Herranz nel suo libro Due papi (Piemme) ha commentato il caso con incredulità: “Mi risultava impossibile comprendere, e mi dispiaceva enormemente, la sua grave offesa al vicario di Cristo e alla comunione cattolica”. E di recente il segretario di Stato ha ribadito di averlo sempre apprezzato come un grande lavoratore, molto fedele alla Santa sede e per certi versi addirittura esemplare. Parolin ha anche sottolineato che Viganò quando è stato nunzio apostolico ha lavorato bene. E ha concluso di ignorare cosa sia successo”».

Lei che cosa crede sia successo?
«Il caso progressivamente si è aggravato. Ma la pubblicazione di questa scomunica, che era automatica nei fatti, ha ridato visibilità a una vicenda molto circoscritta e ormai in esaurimento. E il fatto rischia inevitabilmente di far riaccendere una crisi complicata e incresciosa che potrebbe inasprire le polarizzazioni e allargare le divisioni in una Chiesa che proprio non ne sente il bisogno».

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Monsignor Viganò si è richiamato alla vicenda dell’arcivescovo francese tradizionalista Marcel Lefebvre, oppositore del concilio Vaticano II e anche lui scomunicato.
«La sua difesa è la mia, le sue parole sono le mie», ha detto. Ci sono similitudini tra i due casi di scomunica? «Non direi. Lo scisma lefebvriano è molto più grave e drammatico, e si è fatto di tutto per farlo rientrare perché ha creato una frattura che ancora sanguina nella Chiesa. Persino un teologo progressista come Hans Küng si era detto agli inizi favorevole a un riavvicinamento. E dopo la morte di Lefebvre, nel 1991, molti suoi seguaci si sono riavvicinati alla Chiesa cattolica e non pochi sono rientrati. Tra l’altro gli stessi lefebvriani hanno preso le distanze dalla deriva di Viganò, ma...».

Ma...?
«La pubblicità data alla scomunica potrebbe, come dicevo, riattizzare un fuoco quasi spento». 

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