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Fausto Carioti: salvate Roma da questa giunta inetta

di Fausto Carioti venerdì 2 agosto 2024

4' di lettura

Se un incendio può avere un senso, quello che ha carbonizzato la collina di Monte Mario è la metafora della «finaccia» che hanno fatto Roma e le sue istituzioni. È tutto lì, nel giro di trecento metri. A sinistra il palazzo dove i magistrati dispensano condanne e assoluzioni, affiancato dal parcheggio del tribunale. A destra via Teulada e la Rai, occhi e voce di milioni di italiani; in fondo alla strada, una stazione dei carabinieri. In alto l’Osservatorio Astronomico, col suo Museo Copernicano, ricorda che la città non è solo Chiesa e politica. Un miracolo dell’uomo, o la Madonnina del don Orione che veglia da poco lontano, lo ha salvato dalle fiamme: anche ieri un elicottero dei vigili del fuoco ha passato ore a sganciare bombe d’acqua sulle sterpaglie fumanti che lo circondano. In mezzo a tutto questo, la favela da cui, con ogni probabilità, è partito l’incendio. Proprio lì, al termine della via Triumphalis dei generali romani e della via Francigena che portava i pellegrini dai confini della cristianità sino ai Prati di San Pietro: sic transit gloria mundi.

TERRA DI NESSUNO

Era sotto gli occhi di tutti, eppure nessuno ha fatto niente. Si vedono dalle finestre degli uffici di giudici e pm, li puoi toccare con mano quando vai a prendere l’automobile parcheggiata, sono intorno a te mentre percorri la salita tutta curve che collega piazzale Clodio con la Balduina: un accampamento sparso lungo la collina, baracche fatiscenti, materassi buttati per terra, valigie abbandonate da cui strabordano indumenti sporchi. Ma le istituzioni hanno sempre avuto cose più importanti di cui occuparsi, le telecamere della Rai scene più interessanti da inquadrare. Per scoprire le cause dell’enorme incendio, la procura di Roma ieri ha aperto un’inchiesta, a questo punto inevitabile quanto inutile. Non ce ne sarebbe stato bisogno se dieci anni fa, guardando ciò che avevano davanti ogni giorno (la famosa obbligatorietà dell’azione penale), le stesse toghe avessero indagato per invasione di terreno altrui, e se chi di dovere, a partire dal Comune, avesse protetto quel pezzo di terra che appartiene a tutti. Unici a non mollare, gli abitanti del quartiere, regolarmente ignorati: vivere in appartamenti da cinquemila euro al metro quadro in una delle zone “buone” di Roma (il Cavalieri Waldorf Astoria e la Pergola di Heinz Beck con le sue tre stelle sono a un tiro di schioppo) non ti garantisce nulla, se chi incassa le tue imposte non lavora per meritarsele. E in questo l’amministrazione capitolina è democratica davvero: la città è sporca e fa schifo ovunque, il degrado è inclusivo e onnipresente, i cinghiali a chilometro zero non sono privilegio di pochi.

Ci si possono riempire gli scaffali, con gli articoli che le testate locali hanno dedicato negli anni passati a quella discarica a cielo aperto. Un rituale stanco: ogni tot mesi la polemica, il grido d’allarme per il «disastro sociale e ambientale» che covava lì sotto. E magari, se si era a ridosso delle elezioni, si provvedeva pure allo sgombero e alla bonifica, preoccupandosi che giornali e tg si attenessero alla giusta “narrazione”: problema risolto, noi non siamo come gli altri. Ma non ci credeva nemmeno chi certe cose le diceva, e infatti dopo una settimana tutto ricominciava, le baracche rispuntavano con gli stessi di prima, o con altri che prendevano il loro posto indisturbati. Fino alla sceneggiata successiva.

IL PRIMO AMBIENTALISTA

In via Teulada, appeso al cancello di un parco che le fiamme non sono riuscite a raggiungere, c’è un cartello dei comitati di quartiere: «Ambientalisti dove siete? Prati sta diventando sempre più invivibile». Beata ingenuità: l’ambientalista numero uno è in Campidoglio, indossa la fascia tricolore. Davanti ai boschi di Monte Mario che bruciano, Roberto Gualtieri è entrato in modalità supercazzola, la sua specialità. Ha spiegato che ci sono «fenomeni enormi che non sono governabili da nessuno direttamente, le migrazioni, la povertà, ci sono tante persone che non hanno una casa e che si accampano dove possono. Spesso noi li spostiamo, ma se si sgombereranno qui andranno da un’altra parte, quindi questa è una realtà molto difficile». Il sindaco che ora si proclama impotente dinanzi al declino e scarica ogni colpa su forze planetarie incontrollabili (ossia quelle migrazioni che il suo Pd incoraggia) è lo stesso che nel programma con cui si era candidato a guidare la capitale aveva scritto ai romani: «Il rischio che corriamo è cedere all’inerzia del declino attorno a noi. Ma esiste un’altra opportunità, che noi vogliamo cogliere». Infatti lui l’opportunità l’ha colta, la città no. Personaggi del genere Roma ne ha visti innumerevoli. Trilussa – a proposito di metafore – li dipingeva come «la lumachella de la vanagloria, ch’era strisciata sopra un obbelisco, guardò la bava e disse: “Già capisco che lascerò un’impronta ne la Storia”».

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