Sono passati ormai due anni da che Greta Thunberg ha annunciato il suo ritiro dalle sceneggiate. Eppure sono tre giorni che bascula per l’Italia. L’attivista non più bambina passa con nonchalance da un corteo a favore della Palestina nel quale accusa Israele di genocidio e l’Occidente di complicità a un’assemblea sindacale in fabbrica in quel di Campi Bisenzio, dove gioca a fare da testimonial dell’equilibro tra giustizia climatica e sociale. Ingenuo chi ci aveva creduto, nel novembre del ’22, quando la svedese disertò la conferenza sul clima di Sharm el Sheikh dichiarando che era venuto «il momento di consegnare il megafono a coloro che hanno davvero qualcosa da raccontare, perché il mondo ha bisogno di nuove prospettive». Era una Greta disillusa e pessimista, che se la prendeva con i potenti, definendoli «di una ignoranza scioccante». Mica come lei, che non era ancora diplomata ma già era laureata in teologia, ad Helsinki, grazie a un rettore modaiolo che sentenziò che la sua facoltà «studia le grandi speranze e paure, le questioni centrali dell’umanità, come il cambiamento climatico, la perdita della nautra, le guerre». Sarà che la stampa, con il suo consueto cinismo, dopo averla esaltata per quattro anni, se ne fece subito una ragione, ma Greta non aspettò neppure il cambio di stagione per fare retromarcia. Per ritrovare ardore e motivazioni, alla ragazza fu sufficiente che al vertice sull’ambiente sulle rive del Mar Rosso qualcuno individuasse nella statunitense Sophia Kianni, altrettanto giovane ma laureata per davvero e più avvenente, la sua erede.
DA EROINA A VIOLENTA
“La rompiballe va dal Papa» titolò profetico Libero nell’aprile del ’19, quando la giovane chiese udienza a Bergoglio, ma rimediò solo una pacca sulla spalla in un incontro pubblico tra la folla in piazza San Pietro. «Francesco mi ha spronato ad andare avanti», dichiarò Greta e la nostra testata si trovò processata dall’Ordine dei Giornalisti, che riteneva non si potesse dare del rompiballe a chi, come Greta, è affetto dalla sindrome di Asperger, perché tra i sintomi rientra il disturbo ossessivo-compulsivo. Fortunatamente noi ce la cavammo con un’ammonizione, mentre molti altri, soprattutto tra le forze dell’ordine, cominciarono a pensarla come noi. Dal suo annunciato finto ritiro, la Thunberg ha collezionato una discreta serie di arresti, per essere una che voleva passare il testimone. L’hanno fermata in Olanda per blocco autostradale, in Norvegia perché si opponeva a un progetto eolico che a suo dire sfavorirebbe gli indigeni sami, in Germania perché non voleva la demolizione di un villaggio carbonifero. I tedeschi in particolare ce l’hanno con lei, pur essendo tradizionalmente una terra dove i Verdi vanno alla grande. La polizei l’ha definita «una persona incline alla violenza», mentre il deputato Alexander Throm la considera «donna non gradita e odiatrice di ebrei». E si tratta di un esponente della moderata Cdu, non della destra cattiva di Alternative für Deutschland.
PARABOLA DECLINANTE
In patria non le va meglio. La Svezia l’ha processata e condannata per due volte a multe di 1.500 e 4.500 corone per resistenza a pubblico ufficiale. Anche la democratica Gran Bretagna l’ha messa a processo, per aver tentato di boicottare un incontro tra petrolieri in un albergo londinese. Segno che i tempi cambiano. Allorché, nel 2018, si affacciò alla ribalta internazionale perché, anziché andare a scuola, passava tutti i venerdì di fronte al Parlamento svedese per protestare contro il clima, il mondo le si inginocchiò davanti.
Pareva una cosa casuale, ma nel giro di pochi mesi uscì il suo libro, “La nostra casa è in fiamme”, storia sua, della sua battaglia e della sua famiglia, immediatamente seguito dalla versione dei genitori, “Scene dal cuore”. «Un’operazione di propaganda straordinaria» ebbe a scrivere il giornalista svedese Andreas Henriksson, che con perfidia teorizzò che «lo sciopero scolastico altro non era che una strategia pubblicitaria editoriale di ampio respiro», sostenendo che dietro tutto ci fosse il grande esperto di comunicazione Ingmar Rentzhog. Di certo, le carriere artistiche di mamma e papà, rispettivamente cantante lirica e attore, ne ebbero gran beneficio. Ma il 2019 è lontano. L’ambientalismo era una religione universale ai tempi. Barack Obama ricevette Greta in previsione delle presidenziali Usa del 2020, quando bisognava sconfiggere Donald Trump, accusandolo di tutto l’inquinamento che gli Stati Uniti producono da sempre senza alcun riguardo. A questo giro, i democratici si tengono ben distanti dagli attivisti del clima, consapevoli che li porterebbero alla sconfitta. Pure in Europa il vento è cambiato. I 70 seggi a Bruxelles ottenuti dai Verdi nella scorsa legislatura si sono ridotti a 53 e Ursula von der Leyen, per garantirsi la riconferma, è stata ben attenta a non scivolare su Greta. Perfino Bonelli e Fratoianni hanno preferito puntare su Ilaria Salis piuttosto che sulla Thumberg.
RICICLO PALESTINESE
Siccome è ambientalista, per la giovane svedese non è stato difficile riciclarsi. Se l’allarme clima tira meno, per restare attivista di fama oggi la guerra a Gaza è un investimento sicuro. Greta ci è saltata su subito, forse ancora una volta ben consigliata. Già pochi giorni dopo l’ecceidio del 7 ottobre del 2023 a opera dei terroristi di Hamas, la signorina era in piazza a denunciare il genocidio di Gaza e a testimoniare la propria solidarietà alla Palestina. Non una parola per le vittime, Israele, i duemila ebrei massacrati e i duecento rapiti e portati nei tunnel. Un anno dopo, cela siamo ritrovata a Milano, con la kefiah al collo, a spiegarci che «non ci si può definire attivisti del clima se si ignora la sofferenza dei popoli colonizzati ed emarginati, perché il silenzio significa complicità con il genocidio». «Intifada fino alla vittoria. Sionisti peggio dei nazisti» gridano intorno a lei, che si trova perfettamente a suo agio, neanche fosse nel mezzo di un blocco stradale. A testimonianza che esiste un filo rosso che lega la martellante propaganda ambientalista alla battaglia della sinistra occidentale contro Israele, e quindi contro la nostra società: è la volontà di estirpare i valori della nostra civiltà, che i talebani di casa nostra considerano peggiori perfino degli orrori delle teocrazie musulmane e delle gesta dei terroristi in nome di Allah.
Certo, per occuparsi delle sorti del mondo, la Thunberg ha una visione piuttosto limitata del pianeta. Nel discorso che la rese famosa, nel 2018, alla conferenza sul clima di Katowice, in Polonia, con voce dura, faccia cattiva e il disprezzo che le usciva da tutti i pori, l’allora ragazzina aveva accusato i potenti del mondo: «Voi rubate i sogni e il futuro alla mia generazione. Non siete abbastanza maturi per dire le cose come stanno, pensate solo al consenso e ci state lasciando un pesante fardello». L’Europa l’ha ascoltata, almeno in parte, e questa è la causa principale della recessione che la sta investendo. Cina, Russia, India, i più grandi inquinatori del pianeta, continuano a ignorarla, in un disinteresse corrisposto.
Ora è maggiorenne, ha passaporto, benedizione del Papa, amicizia dei leader occidentali, fan perfino nel mondo arabo esteremista. Perché non va a dire a Putin, Xi Jinping e Modi cosa pensa di loro?