Per gentile concessione dell’autrice e dell’editore Piemme, pubblichiamo in anteprima uno stralcio del libro (in libreria da domani) di Stefania Craxi, «All’ombra della storia. La mia vita tra politica e affetti», (Piemme, pag. 192, 18,90 euro). Un libro, spiega l’autrice, presidente della Commissione Affari Esteri e Difesa del Senato, che «nasce da un moto dell’animo. Racconta un pezzo della mia storia, il mio Craxi, un padre difficile e straordinario, e, vagando tra i ricordi, narra le vicende della nostra famiglia, una famiglia allargata a una piccola, grande comunità politica e di amici che per anni ha condiviso tutto».
A un certo momento, mio padre deve essersi accorto che, da presidente del Consiglio, il tempo che poteva dedicare ai suoi figli era davvero poco. Cominciò a invitarci nei suoi viaggi all’estero. Probabilmente sottovalutando il fatto che la ragione sottesa (e non espressa, al solito) veniva da me presa molto sul serio.
Negli anni di Palazzo Chigi individuai subito il mio uomo, il prefetto Bottiglieri, capo del cerimoniale, e, già da sotto la scaletta dell’aereo, gli rendevo nota la ragione del mio viaggio: volevo stare con mio padre, quindi avrebbe dovuto farmi la cortesia di aggiungermi ai suoi programmi e non a quelli delle altre donne al seguito, compresa mia madre. Al suo: «Signorina non è possibile» opponevo un tale quantitativo di argomentazioni, condite da altrettante lusinghe, che riuscivo quasi sempre a ottenere il mio scopo. Mi sono infilata nello studio ovale di Reagan con i giornalisti che ponevano un fuoco di fila di domande a lui e a Craxi, al Cremlino da Gorbaciov, da poco eletto, e ricordo la preoccupazione che mio padre nutriva sul rischio di una dissoluzione dell’Urss frettolosa e disordinata. Assistetti all’intemerata di Gromyko contro gli euromissili, a cui Craxi, da uomo dell’Occidente, oppose un ragionamento che non faceva una piega: «Se voi non mettete i vostri missili puntati verso l’Europa, noi rinunceremo a mettere i nostri». [...]
Ho un ricordo vivido di molti viaggi, mi sovviene per esempio di quando Craxi, presidente del Consiglio, portò l’Italia in quello che sarebbe diventato il G7. Eravamo a Tokyo, chiusi in un albergo completamente blindato, c’erano persino i sommozzatori in piscina. L’obiettivo da raggiungere era chiaro, ma irto di difficoltà. All’ingresso dell’Italia nel club dei grandi della Terra si opponevano i francesi. Craxi era coadiuvato dal suo ministro degli Esteri, Giulio Andreotti, e da un giovane direttore di Bankitalia, Lamberto Dini, ed era più che mai determinato a conseguire il risultato. Fu in questo contesto, carico di tensione, che assistetti a una scena incredibile.
La mattina vidi Craxi dirigersi verso gli ascensori da cui usciva Ronald Reagan: mio padre non parlava inglese e Reagan non conosceva una parola di italiano, eppure il colloquio fu lungo e intenso. Ho negli occhi l’immagine di mio padre che inchioda il presidente americano appoggiandosi allo stipite dell’ascensore. Quando la sera gli chiesi lumi su quel confronto scoprii che avevano parlato in spagnolo e che quel «bilaterale» informale aveva schiuso le porte del club dei Paesi più industrializzati del mondo all’Italia. Aveva funzionato l’alchimia tra un ruvido cowboy e un irruente garibaldino, l’incontro tra due personalità forti che, pur provenendo da storie e formazioni diverse, erano riuscite a capirsi e a collaborare. Un’intesa basata sulla stessa franchezza di linguaggio e su una grande stima reciproca, che non venne meno ma che anzi si cementò durante la crisi più acuta che l’Italia e gli Stati Uniti vissero dalla fine della Seconda guerra mondiale. Anche su Sigonella si sono consumate letture interessate e di parte che hanno provato a distorcere, senza riuscirci, le ragioni di fondo che mossero l’agire di Craxi. Sigonella, invece, è rimasta nella memoria collettiva come il più alto episodio di difesa della sovranità nazionale, forse l’ultimo capitolo del nostro Risorgimento.