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Lorenzo Mottola: Aia? Silenzio su Maduro e talebani, ma sentenza lampo contro Netanyahu

di Lorenzo Mottola venerdì 22 novembre 2024

4' di lettura

Un mandato d’arresto emesso simultaneamente contro due politici israeliani regolarmente eletti e uno stragista palestinese morto, da parte di un procuratore sotto accusa per molestie sessuali per conto di uno Stato retto da un’organizzazione terroristica nel contesto di una corte internazionale che ha indagato l’esercito degli Stati Uniti d’America ma non ha mai toccato i leader talebani e la cui giurisdizione è sospesa in mezzo pianeta. Basterebbero questi pochi elementi per farsi un’idea sull’autorevolezza dell’azione del tribunale dell’Aia contro Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant. Un’autentica farsa, che però rischia di avere effetti devastanti a livello di immagine, alimentando e legittimando le proteste anti-israeliane e le sue derive violente, come quelle di Amsterdam. Si è aperta la caccia all’ebreo, con tanto di autorizzazione legale.

La storia di questa Corte inizia con lo Statuto di Roma del 1998 e non va confusa con quella della Corte internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite. Quest’istituzione non fa parte dell’Onu e nasce con il fine di perseguire solo i reati più gravi, come i crimini contro l’umanità. Come dicevamo, è lunga la lista degli Stati che non hanno mai ratificato il trattato. E la ratifica è necessaria per rendere le decisioni del tribunale vincolanti sul proprio territorio. Non hanno firmato la Russia, la Cina, l’India, l’Arabia Saudita, la Turchia, Israele stessa e soprattutto gli Stati Uniti, per il semplice fatto che a Washington riterrebbero incostituzionale accettare le sentenze di questo tribunale, accusato tra le altre cose di non garantire processi equi e di durata ragionevole. Tra gli Stati firmatari figura invece la Palestina. E i togati dell’Aia hanno stabilito che anche Gaza sia parte di questa entità politica (ad oggi di fatto inesistente), il che era indispensabile perché si aprisse un’indagine. In altre parole, formalmente il procuratore Karim Ahmad Khan agisce per il governo di Gaza, cioè per conto di Hamas.

MORTO CHE PARLA
Questa è una delle ragioni per cui, alla notizia dell’inchiesta, gli Stati Uniti avevano protestato. E anche in Italia aveva fatto discutere la scelta di inquisire contemporaneamente Neatanyahu, Gallant e il leader di Hamas Sinwar con i suoi sodali. Totale equivalenza tra terroristi autori della peggior strage di ebrei dalla Seconda guerra mondiale e il leader israeliano. Ma a molti è parso chiaro che l’obiettivo fosse solo Neatanyahu. In seguito i leader di Hamas sono stati uccisi, così oggi in maniera un po’ grottesca la corte ha deciso di provare a mantenere quella strana simmetria chiedendo l’arresto anche del palestinese Mohammed Deif perché – anche se non vi sono molti dubbi al riguardo – la sua morte non è stata documentata. Gli americani avevano già annunciato di voler sanzionare la corte e i suoi membri, non avendo digerito le indagini sui loro militari accusati di omicidi e stupri durante la missione in Afghanistan (altro Stato firmatario della Cpi). È un classico esempio della strana condizione giuridica cui è ridotta questa corte, che come dicevamo non ha mai intrapreso alcuna azione nei confronti dei leader talebani, le cui imprese sono abbastanza note. Non può toccare Kim Jong Il o il regime degli Ayatollah. Potrebbe intervenire invece in Venezuela, ma in quel caso le cose vanno drammaticamente a rilento.

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L’ASSALTO ALLA COLLABORATRICE
Sempre in tema di credibilità dell’istituzione, è utile ricordare la storia del procuratore del caso Neatanyahu, ovvero lo scozzese Khan. L’avvocato britannico – come riportato dall’Ap - era stato accusato da una dipendente della corte di molestie. Nel dettaglio, durante un viaggio avrebbe provato a convincere la donna ad andare a dormire nella sua stanza, dopodiché l’avrebbe toccata nelle parti intime. E non contento alle 3 del mattino si sarebbe presentato alla porta della sua camera e si sarebbe messo a bussare per 10 minuti. Khan avrebbe viaggiato spesso con la donna, dopo averla trasferita nel suo ufficio da un altro dipartimento. Dopo alcune segnalazioni, la stessa corte ha fatto partire un’indagine interna, archiviata nel giro di 5 giorni. In seguito la donna ha chiesto che intervenisse un’inchiesta esterna. E questo perché la precedente era stata affidata a un ex membro dello staff di Khan. Un esempio della grande efficienza di questa istituzione, alle cui decisioni adesso mezzo pianeta – incluso il Partito Democratico – ci dice che dobbiamo attenerci senza discussioni. Ora si pone il dilemma: l’Italia in caso di visita di Stato di Netanyahu sarebbe teoricamente vincolata ad arrestarlo e consegnarlo all’Aia. E lo stesso vale per l’intera Unione Europea. «Decideremo con gli alleati» ha detto ieri il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Se la sentenza venisse disapplicata, verrebbe di fatto sancita la morte della corte. O meglio, l’eutanasia, secondo la traduzione letterale: la buona morte.

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