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Lorenzo Cafarchio: Marinetti, quando il padre del futurismo faceva il giornalista a Milano

di Lorenzo Cafarchio sabato 14 dicembre 2024

3' di lettura

«Siamo, a parer mio, in giorni d’incomparabile bruttezza e nulla ricordo d’analogo dacché ho l’età della ragione. Vedo cose che mi ricordano i Borboni». Siamo a Milano è il 1898 e il giornalista nonché ideatore del Corriere della Sera Eugenio Torelli Viollier fotografa quelli che sono stati i moti milanesi che si sono consumati tra il 6 e il 9 maggio di quell’anno.

Uno scenario che torna di attualità grazie a Luni editrice che ha pubblicato, con la traduzione di Anna Pensante e il testo francese originale a fronte, il volume I moti milanesi del maggio 1898 (96 pp.; 12 €) firmato da Filippo Tommaso Marinetti. Il genio fondatore del Futurismo lo scopriamo in una veste inedita quella del reporter tra barricate, sangue, pallottole e pezzi di cervello. Effetì all’epoca dei fatti aveva 22 anni e nel 1900 pubblicherà sulla rivista Le Revue Blanche il saggio Les emeutes milanaises de mai 1898. Dopo l’introduzione curata da Arturo Colombo prende vita il reportage di Marinetti che parte rievocando i disordini divampati nei mesi precedenti nel Mezzogiorno.

Caserta senza grano e Foggia senza lavoro. A Orta Nova braccianti e agricoltori vogliono vendicarsi del cielo impassibile, mentre la fame e l’inedia braccano Molfetta e Aversa. La rabbia sale attraversando lo stivale. Il 4 maggio viene ucciso da una pallottola vagante durante uno scontro tra manifestanti e soldati lo studente Mussi, figlio del deputato radicale Giuseppe Mussi. La fiamma è accesa e Milano è una miccia sempre più corta. La città che sembra teutonica e porta ancora con sé il passato di Radetzky nel presente di quel maggio ha il volto frenetico. «Che atteggiamenti meridionali negli assembramenti, sui tavolini dei bar, intorno ai giornali distesi come le carte di stato maggiore su un campo di battaglia». E in quelle vie, in quei viali, in quelle piazze che sono già la dimora di F.T.M. la metropoli meneghina trasforma la sua anima. Milano placida con l’aria di un burocrate si rende conto di aver sbagliato mestiere, «improvvisamente si scopre l’animo di un poeta e tra uno scossone e l’altro dell’omnibus si mette a sognare di scrivere un poema epico».

Le condizioni del lavoro e l’esplosione del prezzo del pane fanno il resto. La rivolta è alle porte. Il 5 maggio davanti allo stabilimento della Pirelli, dove alla produzione della gomma erano impiegati circa 4.000 operai, l’agitazione deflagra. Un uomo che distribuiva volantini viene arrestato dalla polizia, ma la folla come una mano rapace scaglia il suo pugno contro gli agenti che sono costretti a liberarlo. I deputati socialisti Rondani e Turati entrano in azione ottenendo quello che la moltitudine chiedeva, ma impartendo anche parole di pazienza e calma. «Non moltiplichiamo le vittime. Verrà l’ora fatidica».

Il tempo corre, corrono le coscienze davanti alle ingiustizie. Un giovane socialista grida tra le strade davanti alla sera milanese: «Dobbiamo dare l’esempio del nostro coraggio all’Italia». La città delle rivoluzioni ruggisce. «Ci basterà Milano, Milano, Milano, la cittadella delle libertà italiane! Vogliamo ottenere tutto oppure rovesciare tutto». La valanga rivoluzionaria verrà frantumata dai fucili e dei cannoni del generale Fiorenzo Bava Beccaris che senza pietà stuprerà i sogni primaverili dei milanesi. 81 morti e 450 feriti tra le file dei rivoltosi che armeranno il 29 luglio 1900 il regicidio dell’anarchico Gaetano Bresci contro Umberto I. «Milano sembrava in uno stato di animazione so spesa». Le donne coi loro mocciosi attaccati alle gonne seguivano i cortei, i tram ribaltati sulle strade, le barricate innalzate verso le stelle. Ormai lo stato di assedio aveva preso il sopravvento mentre i giornalisti del Secolo e dell’Italia del popolo vennero arrestati. Lunedì 9 maggio ancora fermi e manette, il giorno successivo i prigionieri furono fatti sfilare fino al Castello. Pubblico ludibrio. Marinetti conclude il suo racconto citando Engels, «impossibile vincere facendo la rivoluzione in una capitale moderna». Il domani ci dirà altro, lo sappiamo, anzi sarà proprio Effetì a uccidere il chiaro di luna innalzando la poesia del tumulto.

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