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Pci, ovvero l'arte dell'inganno: ecco chi erano davvero i comunisti

di Fausto Carioti martedì 26 dicembre 2023

4' di lettura

«È uno dei fenomeni più curiosi dell’epoca moderna: penso, per esempio, al Partito comunista italiano. Come è possibile che la volontà rivoluzionaria continui a resistere in un partito installato in una società moderatamente liberale?». Bella domanda. Come si fa ad essere comunisti, cioè sedicenti rivoluzionari, senza fare alcuna rivoluzione, e ciò nonostante mantenere nei decenni la propria credibilità davanti alle masse? È il marzo del 1973 e a porsela dalla cattedra del Collège de France è Raymond Aron, il più grande politologo francese del dopoguerra, filosofo liberale e grande rivale di Jean-Paul Sartre. Ad ascoltare il suo ciclo dilezioni c’è il vasto pubblico che Parigi, in quegli anni, riserva ai maestri del pensiero: non solo studenti, ma intellettuali, militari, funzionari, ammiratori e gente qualunque richiamata dal suo nome. Alle elezioni dell’anno prima il Pci, passato nelle mani di Enrico Berlinguer, ha preso il 27% dei voti e si prepara al grande balzo del 1976, quando supererà il 34%. Da questa parte delle Alpi inizia a tirare aria di solidarietà nazionale, mentre all’Eliseo siede il gollista Georges Pompidou.

A livello internazionale è piena guerra fredda tra Leonid Brežnev e Richard Nixon, che ha appena fatto ritirare i marines dalle giungle del Vietnam. Pochi mesi dopo, in Cile, un colpo di Stato rimuoverà il governo del marxista Salvador Allende, e le scosse di quel golpe arriveranno in Europa. Nel frattempo una copia di Arcipelago Gulag, il capolavoro di Aleksandr Solzhenitsyn, ha miracolosamente varcato la Cortina di ferro: il libro sarà pubblicato a Parigi nella fine di quell’anno, cambiando per sempre la percezione del comunismo. Tempi roventi, insomma. Che rendono ancora più clamoroso il paradosso del Partito comunista italiano (e non solo: vale per quello francese e gli altri Pc occidentali) evidenziato da Aron. Non ne sapremmo nulla se in Italia – prima ancora che in Francia, dove è atteso tra un anno – non fosse uscito l’ultimo grande inedito di Aron, il volume che raccoglie quelle tredici lezioni.
Merito del lavoro di Alessandro Campi, uno dei maggiori esperti della destra europea, e Giulio De Ligio, che per Marsilio hanno appena dato alle stampe in anteprima mondiale Teoria dell’azione politica, stesso titolo del corso di Aron. Grazie alla figlia del gigante francese, i due hanno avuto accesso alla trascrizione di quelle lezioni.

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Leggerle è un’immersione in millenni di dottrina della politica e della guerra, con Aron che spazia da Sun Tzu ad Hannah Arendt, passando per Hegel, Carl von Clausewitz e ovviamente Sartre. Proprio questo scibile immenso, e la capacità di fare connessioni che ad altri sfuggirebbero, consentono ad Aron di spiegare il comportamento dei dirigenti e degli elettori comunisti. Intanto, nessun imborghesimento: il Partito comunista francese, e vale pure per quello italiano, è «un partito rivoluzionario», giacché, «se fosse al potere, introdurrebbe una trasformazione fondamentale della società francese». Pur non cercando l’insurrezione armata, insomma, se questi partiti avessero vinto le elezioni avrebbero applicato le loro dottrine marxiste e stravolto le direttrici della politica estera.

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Resta il fatto che i loro generali non andavano al potere (sempre siano lodate le maggioranze silenziose), eppure il morale delle truppe era alto. Aron spiega l’arcano col fatto che i partiti comunisti occidentali si sono modellati sulla casa madre sovietica: «Presentano il volto di un’organizzazione autoritaria e burocratica, come un partito che ha preso il potere è obbligato a divenire, anche se per il momento non hanno ancora fatto la rivoluzione». Splendono di luce rivoluzionaria riflessa, insomma: Lenin e l’Ottobre rosso sono l’alibi perenne, lo stratagemma che consente di proclamarsi rivoluzionari senza assaltare il Quirinale e l’Eliseo. E poi c’è Sun Tzu, che piace tanto ai «rivoluzionari di professione» occidentali. Il motivo, suggerisce Aron, è chiaro, e non è solo il fatto che Mao Tse-tung, mito delle piazze europee nei formidabili anni del Libretto rosso, si ispirasse all’autore de L’arte della guerra. I precetti amorali di Sun Tzu entusiasmano i rivoluzionari che non fanno la rivoluzione proprio perché prevedono di non affrontare mai il nemico in campo aperto, ma di confonderlo e fiaccarlo attraverso l’inganno e la manipolazione. Aggirarlo, portare i suoi uomini dalla tua parte e mai fargli capire qual è il tuo vero piano. Vincerlo senza combattere: non cannoni, dunque, ma infiltrazione di agenti segreti, psicologia collettiva e manipolazione delle menti (e il disarmo unilaterale che i pacifisti europei chiedevano ai loro governi, cos’altro era?) Una strategia che si addice benissimo alla doppia morale dei comunisti, italiani e non solo. Ed è solo un briciolo dell’insegnamento di Aron. C’è molto altro, in quelle 327 pagine. 

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