La favola della Trojka

I comunisti epuravano perfino i marziani

Marco Respinti

Niente, l’idea che la fantascienza sia solo letteratura psicotropa per sottrarsi alle crudezze del “realismo” insiste e persiste. Ora, ancorché nessuno condannerebbe un prigioniero che, rinchiuso ingiustamente, fuggisse (come notava J.R.R. Tolkien nel suo immarcescibile saggio Sulle fiabe del 1936), la fantascienza non è affatto «escapismo» (sempre Tolkien, sempre Sulle fiabe). Sovente è una forma superiore di resistenza umana, sfida ultima e ultimativa dell’umano all’esistente quando l’esistente ha perso umanità. Lo mostra bene la fantascienza, o comunque il fantastico, cresciuti all’ombra cupa del totalitarismo sovietico. Mikhail Bulgakov iniziò con Uova fatali e Cuore di cane, e i fratelli russi Strugatskij, maestri incontrastati del genere, hanno proseguito egregiamente.

 

Esce ora finalmente in italiano, nell’anno di grazia 2023, un loro pezzo da novanta, già un classico della fantasia surrealista, che però da ben 56 anni non si poteva leggere. S’intitola La favola della Trojka (in appendice anche A proposito della ciclotazione, racconto perduto e ritrovato) e il potere comunista sovietico lo ha tenuto nascosto per decenni. L’editore Ronzani di Dueville (che nome già questo, fantastico, fantascientifico, un po’ tolkieniano), in provincia di Vicenza, lo pubblica nella traduzione del russista (e “strugatskijsta”) Andrea Cortese, che pure vi appone 38 pagine (su 303 complessive, illustrate da Antonio «Oak» Carrara) di note gustosissime, una vera miniera d’oro per rendere servigio alla cultura mondiale, premiare la memoria che (diceva Aleksandr Solzenicyn) non deve morire mai e lasciare che alla fine lo spirito immortale della libertà trionfi.

 


PRODUZIONE STERMINATA «Gli Strugatskij» sono Arkadij (1925-1991) e Boris (1933-2012), nati a Leningrado quando il terrore rosso imperava e scomparsi nella medesima città tornata San Pietroburgo. Inseparabili, tanto che per le rade navigate in solitaria adoperarono pseudonimi («S. Jaroslavcev» e «S. Vitickij» rispettivamente), la loro produzione di romanzi e racconti è sterminata. Molto si muove nell’«Universo del Mezzogiorno» (il loro mondo secondario), tanto è stato tradotto anche in italiano, parecchio ha ispirato il cinema, primo fra tutti l’Andrej Tarkovskij di Stalker (1979). Il fatto che gran parte della loro carriera si sia svolta ai tempi dell’Unione Sovietica fa capire perché La favola della Trojka abbia impiegato decenni a sbocciare. «No, lui, il più anziano dei maestri, non conosce un rimedio comune al problema qui sollevato. A lui pare del tutto naturale che ognuno dei presenti cerchi una soluzione personale in corrispondenza con la propria costituzione spirituale». Il «lui» è Roman Oira-Oira, uno dei protagonisti di La favola della Trojka, e già solo questo suo timido battito d’ali risultò insopportabile alla censura, quel mostro non di fantasia e onnivoro che cerca di carpire l’anima delle persone dopo averne piegato e piagato il corpo, sigillo tondo e immondo di quei regimi che proprio per quello chiamiamo totalitari. Bolge concentriche di buio e dolore che pretendono essere tutto, tutto controllano, di tutto sono origine, fine e ragione, un dio bugiardo. La censura intimidisce e inibisce, minaccia e smanaccia, sopprime e reprime, giacché ciò che il potere totalitario non può tollerare sono le crepe, all’inizio anche minuscole, nella bolla di cristallo taroccato della sua realtà apparentemente perfetta.

 

 

Nel 1967, ricostruisce Boris Strugatskij nella post-fazione, La favola della Trojka aprì esattamente una di quelle crepe. Infinitesima e trascurabile dapprima, ma capace di gonfiarsi fino a minacciare l’intero castello di menzogne del regime. La favola della Trojka è infatti un po’ il reverendo Jonathan Swift e un po’ le famose barzellette dei Paesi baltici durante l’occupazione sovietica. Al pari de I viaggi di Gulliver è una satira del sistema, delle convenzioni sociali, dei tic e del potere; come nelle battute di lettoni, lituani ed estoni (ne sono state pubblicate raccolte anche in italiano) alla fine il potere che fa paura fa pure ridere. Perché il totalitarismo è sempre tragico e ridicolo assieme, al punto da temere persino la fantasia.Il potere rosso trovò La favola della Trojka inadatta alla pubblicazione, pericolosa sul piano ideologico, colma di errori politici. Non rispondeva infatti pavlovianamente ai comandi del gran manovratore, non si allineava, anarchicheggiava in modo troppo reazionario per il nazional-comunismo sovietico, da sempre rosso-bruno. Mandava insomma messaggi in codice, di presenze aliene, pianeti nascosti, vita su Marte: un oltre spirituale, cioè, al di là della normalizzazione sovietica. Mescolava folclore tradizionale e scienziati russi esistenti, parlava di spirito e di magia, titillava persino un libro sulfureo come Il mattino dei maghi (1960) dei francesi Louis Pauwels (prima di diventare cattolico) e Jacques Bergier, a torto o a ragione perennemente collegato alla paccottiglia del «nazismo occultista» (salvo il fatto che anche l’Unione Sovietica si baloccava con occultismi ed esperimenti fantascientifici ma veri). Fu allora che il compagno Nikita Chrušcëv, il comunista presunto buono, lo segnala Cortese nelle note, esclamò: «Nelle questioni artistiche io sono uno stalinista!».

 

 


La mannaia del boia letterario calò dunque inesorabile su La favola della Trojka, che, tagliato, dilacerato, castrato, perse una metà circa delle pagine, certe ambientazioni, certi personaggi. Il grande gelo durò fino alla perestrojka. Nel 1987 il romanzo vide la luce. Lungo i suoi capitoli, Aleksandr Ivanovi Privalov e i suoi amici tornavano liberi di scontrarsi contro un comitato burocratico, ottuso, quinquennale e trinariciuto (avrebbe detto Giovannino Guareschi) nel tentativo di prelevare oggetti e creature fantastiche ‒ “contro-rivoluzionarie” ‒ per certe loro ricerche, in un trionfo di allegorie tanto sottili quanto pervicaci e canzonature sornione che, sfido io!, il potere sovietico non poteva davvero sopportare. Perché alla fantascienza dei fratelli Strugatskij si può ben applicare quel che nella prefazione di Fiabe Italiane scriveva uno che molto si intendeva di racconti popolari, comunismo e censure quale era Italo Calvino: «Le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata [...] fino a noi». Per questo Mosca temeva La favola della Trojka ritrovata, per questo le tante Mosca di oggi hanno paura della vera fantasia al potere.