La storia di Elly Schlein al Gay pride di Budapest riassume la parabola triste dell’antifascismo europeo. Un’epica che dopo novant’anni annega nel ridicolo. La segretaria del Pd trascorre il pomeriggio alla sfilata arcobaleno sul Danubio nella convinzione di essere la nuova Dolores Ibárruri (figlia di minatori, arrestata e incarcerata più volte, combattente antifranchista, esiliata in Urss, un figlio ucciso nella battaglia di Stalingrado, morta a 93 anni dopo essersi convertita al cattolicesimo).
Biografie, nemici e guerre non potrebbero essere più diversi, però la pasionaria nata a Lugano ci crede. «No pasaran!» scrive sui social network. È la frase-simbolo del discorso con cui Ibárruri invitò il popolo spagnolo a opporsi ai franchisti (non andò bene: alla fine passarono). E «No pasaran!» è lo scimmiottamento che a Budapest ne fa Schlein, in difesa della «identità di genere» che «non si può cancellare», ossia del “diritto” di proclamarsi del sesso che si sceglie, e di essere trattato come tale. Ogni sinistra ha le battaglie che si merita.
Intanto il leader dell’opposizione ungherese a Orbán, Péter Magyar, si guarda bene dal presentarsi in piazza. Ha lasciato Fidesz, il partito di Orbán, per diventare il principale avversario del primo ministro, e i sondaggi lo stanno premiando. Resta in vacanza con i tre figli e si limita a mandare un messaggio. La battaglia Lgbt non è la sua, vuole sfidare Orbán sull’economia e altri temi.
C’è invece mezza sinistra italiana ed europea, con Schlein che canta “Bella Ciao” circondata da Alessandro Zan, Cecilia Strada e altri. C’è il renziano Ivan Scalfarotto, c’è il leader di Azione Carlo Calenda, ci sono le delegazioni di Cinque Stelle, Avs e Più Europa.
Risponde all’appello anche il Comune di Milano, con assessori e consiglieri. Il campo largo in trasferta per un giorno. Marca visita Ilaria Salis, però. «Come sapete», spiega l’eurodeputata rossoverde in un messaggio sul web, «è in corso la procedura sulla richiesta di revoca della mia immunità parlamentare, avanzata dal regime ungherese. Temo ritorsioni e strumentalizzazioni, non solo contro di me». In compenso, reduce dall’avventura a Gaza, si presenta Greta Thunberg, perché «l’amore non può essere proibito».
Sfilano una settantina di eurodeputati di ogni Paese col passaporto diplomatico in tasca (utile qualora le cose dovessero degenerare), ex ministri, sindaci di diverse capitali europee. Ursula von der Leyen prova a cavarsela inviando un messaggio alla «comunità Lgbtiq+» ungherese: «Sarò sempre vostra alleata». Non le basta per evitare di essere contestata in pubblico.
L’esecutivo Ue è presente comunque con la belga Hadja Lahbib, commissaria per le Pari opportunità. Hanno scelto Orbán come nemico comune dopo che costui, nel 2021, ha approvato la legge che proibisce di «promuovere l’omosessualità» a un pubblico minorenne, motivo per cui ha vietato anche il corteo arcobaleno. Disposizione sfidata dal sindaco di Budapest, il liberal GergelyKarácsony, che ha ospitato la manifestazione come evento cittadino e non nazionale: tanto sarebbe bastato, secondo lui, a evitare il veto del governo. Il ministro della Giustizia, Bence Tuzson, ha spiegato invece che gli organizzatori dell’evento rischiano fino a un anno di carcere, mentre la semplice partecipazione è considerata un reato minore, punibile con 500 euro di multa.
Ma Orbán è soprattutto un simbolo: dell’Europa che si sposta a destra, chiude i confini all’immigrazione clandestina e mette in discussione il Green deal e gli altri imperativi della sinistra. Lo si dipinge come un despota per allontanare i Popolari europei dai partiti sovranisti e conservatori, perché ogni volta che questi fanno blocco assieme nell’aula di Strasburgo, come è già accaduto, i socialisti e i macroniani di Renew Europe finiscono in minoranza.
Per la sinistra italiana è anche un modo per avere nuovi argomenti contro Giorgia Meloni. Vedi Zan, che l’accusa di essere «rimasta in silenzio» (proprio come gli altri leader dei Paesi Ue, perché questa è la regola che vige tra i Ventisette), anziché «affrancarsi dai suoi amici sovranisti». Mentre Schlein racconta ai giornalisti europei che «nel mio Paese, in Italia, si stanno bloccando leggi contro l’omofobia».
L’intervento della polizia era ciò che gli avversari di Orbán cercavano, e lui si è guardato bene dal fare questo regalo: da giorni aveva annunciato che gli agenti non avrebbero «disperso» la manifestazione.
L’altro pericolo era rappresentato dai gruppetti dell’estrema destra ungherese, in piazza per il «contro-corteo». Hanno occupato il ponte della Libertà, su cui il Gay pride sarebbe dovuto passare, ma la manifestazione arcobaleno ha cambiato percorso, e quando alcuni hanno provato a intercettarla su un altro ponte è stata la polizia a garantire che sfilasse senza incidenti.
Gli organizzatori sostengono che hanno partecipato tra le 180mila e le 200mila persone, agenzie come la Reuters si fermano a «decine di migliaia». Qualche ora prima, Orbán ha pubblicato in rete una foto che lo ritrae assieme atre bambini - i suoi nipoti - e la scritta: «Questo è ciò di cui sono orgoglioso» (a proposito di «pride»). È l’inizio della sua campagna elettorale per il voto della primavera 2026, quando gli ungheresi dovranno decidere se mandarlo a casa o tenerlo lì per un altro giro.