Domandare è lecito, rispondere è cortesia». E Giorgia Meloni è stata fin troppo cortese nel dare una risposta a un tizio che, armato di cellulare e sbruffoneria, ha usato - sì usato - il dramma palestinese per guadagnare qualche like nel gran circo social. Il quale circo, però, alimenta i giornali e “facilita” il compito di parecchi giornalisti. I quali ovviamente godono perché è avrebbe messo in difficoltà la premier. Una riflessione sullo stato di salute del giornalismo, forse, sarebbe quanto mai urgente: basta davvero un cellulare acceso nel momento in cui la fortuna ti mette al posto giusto per fare un giornalista? «Ma ha fatto la domanda « che tutti vorrebbero fare», ho sentito pure dire. Beh, se le cose stanno davvero così allora possiamo definitivamente archiviare l’Ordine dei Giornalisti e qui chiudere il dibattito sul tema: il giornalismo è diventato il luogo delle dichiarazioni.
Quindi, l’attivista pro-Pal diventa un reporter perché in un eccesso di cortesia e in un contesto privato, la Meloni - che era andata ad un concerto con la figlia - ha risposto alla domanda: «Come madre una parola per il genocidio palestinese?», con queste parole: «Io lavoro ogni giorno sul genocidio palestinese. Siamo la nazione al mondo che ha liberato più bambini, se fosse preparato lo saprebbe, perché la pace non si fa così». E poi giù sulle armi vendute a Israele: in una specie di question time a uso e consumo delle piattaforme. In un mercato della comunicazione e dell’informazione che si alimenta di dichiarazioni e non di analisi, succede che l’influencer pro-Pal si senta degno del Pulitzer o del ruolo di capo dell’opposizione. Invece resta uno che voleva provocare politicamente (un suo diritto, sia chiaro) e soprattutto fare il figo sui social: gli è andata di lusso che si è ritrovato faccia a faccia con la Meloni, fin troppo cortese a dargli pure corda.
I social (col consenso di quasi tutti...) hanno abbattuto i perimetri privati e hanno sdoganato un’altra idea malsana, e cioè che se si accende la camera del telefonino tutto sia consentito e tutto sia “condivisibile” in rete. L’unica difesa allora è tornare a difendere i propri spazi, impermeabilizzandoli dai rompipalle (la democrazia non c’entra un tubo!). La non domanda dell’attivista pro-Pal non meritava alcuna risposta perché di un tema così serio e drammatico non se ne discute nel glo-bar. Altrimenti si alimenta l’equivoco.
E siccome la mamma degli “equivoci” è sempre incinta ecco che la mostruosità raggiunge un’altra epifania mediatica con la tiktoker napoletana che occupa gli uffici del capogruppo in Regione di Azione (ora espulso dal partito). La signora ha potuto manifestare le proprie qualità di nuova Cafo-leader approfittando della miseria culturale di un “politico” che sta dentro lo stesso inganno, cioè quello di volere implementare le proprie pagine social e la propria schiera di follower unendosi alla “scena del villaggio”. La subcultura social diventa subcultura giornalistica così come subcultura politica: sta tutto nella medesima traiettoria verso il basso.
Il manifestante pro-Pal nel momento in cui pone la domanda in faccia alla Meloni non è dissimile alla tiktoker- alla quale volutamente non voglio riconoscere il nome - che entra negli uffici del Consiglio regionale e col compare fa abuso del Tricolore e dell’Inno nazionale, promettendo lavoro e medicine. Entrambi sono diventati notizia politica fuori dalle loro bolle: di loro s’è parlato nelle riunioni di redazione o nei partiti, quindi hanno ottenuto quello che volevano. E non si può nemmeno scomodare la parola “censura”, tanto in un mondo di imbecilli, che vuoi censurare?