Se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa...». Così scriveva Alessandro Manzoni nel suo Storia della colonna infame, che racconta gli abusi contro cittadini innocenti ai tempi della peste a Milano nel 1630. Anche gli ebrei italiani furono trattati come “untori” da tenere lontani dal consorzio civile con le leggi razziali del 1938 e ciò principalmente per la folle scelta del fascismo di seguire le dottrine razziste di Hitler. Ma accanto a questa caduta di civiltà, ingiustificabile e infamante, vi fu il silenzio delle coscienze, il menefreghismo insomma di tanti italiani che si girarono dall’altra parte. Anche di questo, soprattutto di questo, racconta Pierluigi Battista nel suo libro Il professore ebreo perseguitato due volte. Tullio Terni e l’ipocrisia italiana (La nave di Teseo), dove lo scienziato che si uccise il 25 aprile del 1946 assurge a simbolo di vittima innocente e capro espiatorio di un clima dove verità e giustizia restano offuscate, tanto durante il fascismo quanto nel primissimo dopoguerra.
Tullio Terni, membro dell’Accademia dei Lincei, era stato messo al bando a causa delle leggi razziali ma, finita la guerra, fu nuovamente colpito da un verdetto di epurazione stavolta pronunciato da una commissione antifascista che gli impedì l’ingresso all’Accademia dei Lincei. Di qui la scelta di uccidersi con una fiala di cianuro che si era procurato per non morire nelle mani dei nazisti. La sua colpa? Prestare giuramento di fedeltà al fascismo come fecero del resto oltre 1.200 docenti universitari. Solo in dodici si rifiutarono. Gli ebrei italiani da un giorno all’altro furono respinti ai margini della società, reietti, costretti a far valutare la percentuale di sangue ariano alla Direzione generale per la demografia e la razza. Dopo la guerra pesò su Tullio Terni l’accusa « di complicità col fascismo. «L’epurazione nel mondo intellettuale, scientifico e accademico – scrive Battista rischiò ben presto di trasformarsi in una macchina punitiva di ingiustizie e di abusi, e si macchiò ripetutamente di clamorose disparità di trattamento» in una “fiera della maldicenza” e in un clima di faida e di “spudorato camaleontismo”. Un trasformismo ipocrita raccontato da Nino Tripodi nel suo “Intellettuali sotto due bandiere” dove spiegava come giornalisti, professori universitari, intellettuali, giuristi, letterati, filosofi e storici, fascisti determinati fino al 25 luglio 1943 (o poco prima) continuarono a fare gli intellettuali, gli storici, i filosofi o i poeti come se nulla fosse.
Ciò non fu possibile per Tullio Terni e non fu possibile anche per un altro ebreo due volte perseguitato: il filosofo italiano Giorgio Del Vecchio. Nato a Bologna nel 1878, Del Vecchio era, già nel 1920, ordinario di Filosofia del diritto all’ateneo romano.
Nel ’21, anche in qualità di mazziniano e di ex volontario nella Grande Guerra, aderisce al movimento fascista, «che – così ne scriverà- accogliendo uomini di diversi partiti ma generalmente democratici dichiarava di difendere la libertà e la patria, gli stessi ideali peri quali era stata combattuta e vinta la guerra». Fu allontanato dalla sua cattedra prima nel ’38 perle leggi razziali e, dopo una breve riammissione, anche nel ’45 perché indubbiamente fascista “antemarcia”. Eppure, stando a quanto lui racconta – lo scriverà in un pamphlet dedicato alla sua esperienza – lui aveva «sempre insegnato il culto della libertà, i principi immutabili dei diritti della persona umana e l’obbligo inderogabile dello Stato di rispettarli e difenderli». Morirà nel 1970, per essere dimenticato proprio come Tullio Terni. La cui storia Pierluigi Battista ha voluto raccontare perché è una vicenda che parla «di noi italiani. Delle nostre colpe.
Dei nostri silenzi. Delle nostre omertà. Del nostro manipolare la storia a seconda delle convenienze».