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Il salto di qualità di chi cerca lo scontro

di Mario Sechi martedì 23 settembre 2025

5' di lettura

L’incursione alla Stazione di Milano, i disordini in tante città d’Italia, l’assalto alla polizia con 60 agenti feriti, solo in apparenza sembrano un film già visto, in realtà siamo di fronte a un salto di qualità: l’ideologia, il linguaggio, le strategie, il coordinamento, gli obiettivi, sono l’arsenale di un movimento che nasce dal seme dell’Intifada globale. Quali sono le sue caratteristiche?

1. Parto dagli obiettivi scelti dai manifestanti. «Bloccare tutto» era lo scopo di chi ha promosso lo sciopero, fermare il Paese, non a caso con il supporto della Cgil, è il suo leader Maurizio Landini ad aver teorizzato la necessità della «rivolta sociale». Missione compiuta? No, l’Italia non si è bloccata, ma nelle grandi città hanno creato enormi disagi e per centrare il risultato hanno utilizzato la forza, tattiche militari (l’occupazione degli snodi logistici) che a Milano, Roma e in altre città hanno tenuto in ostaggio decine di migliaia di persone nelle stazioni, nelle strade, nei porti. Gaza è il pretesto ideologico di un’operazione politica che probabilmente verrà affinata e replicata quando Landini e soci manifesteranno contro la legge di Bilancio che sta per essere discussa in Parlamento.

2. L’innesco ideologico. La guerra a Gaza è il collante di questo movimento che ha ottenuto la copertura politica della sinistra e con questa benedizione gode di un «via libera» per sostenere l’insostenibile. Il risultato è che gli antisemiti non si nascondono più. Pensano di aver vinto la guerra di Gaza sull’ottavo fronte, quello della propaganda, quindi vanno in piazza e alzano il tiro, fino a sposare in pieno l’obiettivo di Hamas: la cancellazione di Israele. Mentre occupavano l’università “La Sapienza”, ieri i manifestanti urlavano «fuori i sionisti dall’università», la caccia all’ebreo non è sufficiente, si è estesa a chiunque non sia allineato alla piattaforma dell’Intifada globale.

3. Il trasformismo dell’estremismo. La sinistra parlamentare si è (con)fusa nel movimento, non avendo idee nuove in grado di competere con la destra, si nutre dell’estremismo pro-Pal, così la diga della prudenza istituzionale ha ceduto. In questo senso, è significativa l’intervista di Dario Franceschini a Repubblica qualche giorno fa: «Per trent’anni siamo stati abituati all’idea che per vincere le elezioni servisse un candidato moderato. Da qui Prodi, Rutelli e altri. Non è più così. Perché è cambiato il sistema, non il centrosinistra. Quando si votava con affluenza alta era decisivo togliere elettori all’avversario e quindi un elettore conquistato nell’area di centro valeva doppio. Oggi, con il crollo dell’affluenza, si vince dando ai tuoi elettori una ragione per non astenersi». Lo schema della radicalizzazione è un’operazione di trasformismo, via i panni del centrosinistra, si indossano quelli dell’estremismo. Dunque non allargo, ma restringo il cerchio del consenso, l’elettore deve essere un militante (che fa parte di una milizia) e per combattere ha bisogno di un nemico. i$ da qui che parte... «la caccia». Mi viene in mente un passaggio di “Massa e potere”, capolavoro di Elias Canetti: «La massa aizzata è antichissima; essa risale alla più remota unità dinamica conosciuta fra gli uomini: la muta di caccia».

4. Teoria e pratica dello scontro. La traduzione pratica della teoria di Franceschini l’abbiamo vista ieri: alla tiepida condanna dei disordini, fatta come un esercizio di routine, segue una piena adesione alle idee che alimentano la piazza e sfociano nel caos. Il problema della violenza a sinistra viene portato “altrove”, è minimizzato, ridotto a legittimo danno collaterale, mentre tutta la tensione del racconto viene spostata sull’efficacia del «blocco» e sull’avversario che è stato trasformato in nemico da abbattere, un criminale o un complice con «le mani sporche di sangue». Non contano i fatti, ma le sensazioni che vengono evocate dalla propaganda. Elly Schlein ieri ha recitato questo copione: condanna della violenza, cambio rapido dell’obiettivo, attacco a Giorgia Meloni. Giuseppe Conte ha fatto copia e incolla e dunque «il governo si concentri su quello che è un grido diffuso a favore dello stop al genocidio». C’è anche chi salta la prima parte, come il duo Bonelli-Fratoianni che nella gara dell’estremismo, sentendosi «dalla parte giusta della storia», cercano di catturare i più estremi tra gli estremi: «Noi stiamo con chi oggi ha scioperato». La violenza non viene neppure negata, è magicamente sparita.

5. Le munizioni della propaganda. La macchina della comunicazione pro-Pal è raffinata, pervasiva, cinica, non importa cosa sia vero e falso, l’importante è ripeterlo e trovare i canali giusti per diffondere il messaggio. Ieri su Rai3, Marco Damilano nel programma “Il cavallo e la torre” ha intervistato Francesca Albanese, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati. Non intendo qui ripercorrere le sue tesi farneticanti su Israele, le belve di Hamas e i palestinesi, voglio soltanto segnalare l’incrocio di una data, una coincidenza che fa venire i brividi: la Albanese ieri parlava su Rai3 di «genocidio» alla vigilia del “Rosh ha-shana”, il capodanno ebraico che si celebra oggi e domani.

6. L’errore di Macron e Starmer. Riconoscere la Palestina equivale a premiare i terroristi di Hamas. Sottoscrivo le parole di Bernard-Henri Lévy: «Perché il riconoscimento di uno Stato palestinese in questo momento è una «ricompensa» per Hamas? Perché il messaggio sarà: «Finché avete parlato il linguaggio della pace, nessuno vi ha ascoltato; nel momento in cui è emersa una leadership terrorista e pogromista, l’impossibile è diventato possibile». La mossa di Parigi e Londra è un colossale errore di cui Macron e Starmer saranno un giorno chiamati a rispondere di fronte al tribunale della storia, per lisciare il pelo agli islamisti che popolano Francia e Regno Unito, stanno vendendo una democrazia a dei tagliagole. Come disse Winston Churchill al suo primo ministro, Neville Chamberlain, dopo l’ignobile Patto di Monaco del 1938: «Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra».

7. Presente senza passato. E' l’ultimo elemento di cui l’Intifada globale si nutre: l’ignoranza della storia. Il proselitismo filo-islamista, anti-occidentale, relativista, autolesionista, nelle università gode di questa condizione di non-conoscenza che si trasforma in letale incoscienza. Negli atenei di tutta Italia abbiamo visto rettori, senati accademici, docenti, fare lezione contro l’America e l’Europa, aprire le porte ai pro-Pal e chiuderle a chi cercava un confronto di idee.

Così l’antisemitismo ha rialzato la testa, lo hanno tenuto vivo in cattedra e fuso con i rottami del comunismo che non a caso negli anni Sessanta inventò la “questione palestinese” contro Israele. Si parte dai cattivi maestri e si arriva agli utili idioti di Hamas. I giovani che ieri hanno assaltato la stazione di Milano sono prima di tutto degli ignoranti. Ma anche per questo non c’è perdono.

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