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Mieli, Francesca Albanese e il triste ritorno delle liste nere

giovedì 16 ottobre 2025

4' di lettura

Il penultimo bersaglio di Francesca Albanese è Paolo Mieli. L’ex direttore del Corriere della Sera l’altro ieri è entrato nella lista dei giornalisti “sionisti” che la nostra signora di Gaza sta compilando da tempo. Il linguaggio che la Albanese utilizza tradisce una volontà inquisitoria che è una minaccia ai giornalisti non allineati alle farneticazioni degli utili idioti di Hamas: «In questi anni mi sono spesso chiesta come l’Italia fosse di colpo arrivata ad avere la stampa mainstream più sionista dell’Europa occidentale.

Un’inchiesta indipendente è necessaria, per la Palestina e l’Italia. Palestina termometro universale della corruzione del nostro tempo». Le menzogne sono palesi - perché i commentatori che non hanno ceduto il cervello alla propaganda e sono vicini alle ragioni di Israele si contano sulle dita di una mano - ma attenzione alle parole, sono la spia di un progetto: «sionista», «inchiesta», «corruzione». Sono un cartello appeso al collo di Mieli e quelli che con lui condividono l’esercizio della ragione.

Qualche giorno fa, il 13 ottobre, la Albanese aveva esposto così alla furia pro -Pal Incoronata Boccia, giornalista della Rai che ha le sue più che fondate idee sulle connivenze del giornalismo con la disinformatia pro -Pal: «La propaganda progenocidio va indagata e punita». Le parole dell’eroina rivelano la sagoma del Tribunale dell’Inquisizione che si va costruendo: «propaganda», «progenocidio», «indagata», «punita». Il 6 ottobre, il giorno dopo aver lasciato gli studi televisivi de La7 - perché era stato evocato il nome di Liliana Segre, sopravvissuta all’Olocausto (un gesto che nessuno mai dimenticherà e ha innescato un tardivo ripensamento di pochi esponenti della sinistra sulla profetessa con la kefiah) - ha “battezzato” così l’editore Francesco Giubilei: «Opinionista di turno negatore del genocidio». È il dizionario dell’orrore a cui Albanese associa sempre il disprezzo assoluto per chi ha una visione diversa del mondo e guarda ai fatti senza il pre -giudizio anti -israeliano, anti -americano, anti -occidentale. Il 4 ottobre, per difendere l’indifendibile Barbara Floridia - fan della Flotilla e presidente della Commissione di Vigilanza Rai che in un video aveva manipolato un mio intervento in tv - la sibilla della Striscia si esibisce nel numero dell’editto contro il direttore di Libero, reo di andare in tv e esprimere le sue idee in un libero contraddittorio: «Colpa di chi lo invita a parlare di cose che non sa e non capisce». C’è sempre la volontà di cancellare, eliminare e trascinare il suo bersaglio in un contesto di svilimento della persona e pubblico ludibrio.

La strategia di Albanese e dei suoi adepti è raffinata, sinuosa e tagliente: non solo utilizza un linguaggio intimidatorio, ma evoca i tribunali contro il nemico, è un accerchiamento che parte dai social e culmina negli esposti giudiziari, l’apertura di procedimenti che hanno l’obiettivo di reprimere, soffocare, costringere all’angolo chiunque sia fuori dalla linea, una caccia all’eresia che comincia con la «character assassination» del “deviante” e prosegue con il suo «impeachment». È l’Albanese che ha chiesto un provvedimento disciplinare dell’Ordine dei giornalisti contro Maurizio Molinari, l’ex direttore di Repubblica. È l’Albanese che il 1° ottobre annuncia trionfante che «anche in Italia si è formato il gruppo Giuristi e Avvocati per la Palestina (GAP). Dopo varie iniziative per ripristinare il rispetto del diritto internazionale, hanno denunciato il governo italiano nel contesto dei crimini di Israele a Gaza». Il bersaglio massimo, Giorgia Meloni, è esposto e viene portato alla sbarra come «complice» del governo israeliano. Niente e nessuno sfugge all’arte compilatoria della leader del movimento pro-Pal, così il 27 settembre si supera il limite oltre il quale tutto diventa possibile, l’Albanese si rivolge al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per «chiedere ad Israele di fermare il massacro, invece che alla Flotilla, la nostra fiaccola di umanità in movimento, di fermarsi». Il punto chiave non è l’esortazione, è la critica mossa al Capo dello Stato nel passaggio «invece che alla Flotilla», qui c’è il biasimo verso il Capo dello Stato che, non casualmente, poi è diventato un bersaglio degli slogan farneticanti delle piazze pro-Pal.
La compilazione della “Black List” è una rotativa che non si ferma, il catalogo del nemico pubblico non suscita sdegno, condanna, nota del sindacato dei giornalisti, gode della complicità di esponenti di partiti, movimenti, associazioni, giuristi (Albanese è stata ospite il 1° ottobre di un convegno organizzato da Magistratura Democratica intitolato «Gaza, l’umiliazione del diritto») e naturalmente della gran parte dell’informazione che per conformismo e ignavia si allinea e aspetta alla finestra. La “lista” è lo strumento degli “Anni di Piombo”, all’elenco segue l’indagine sull’obiettivo, l’osservazione delle sue abitudini, il percorso che fa dalla casa al lavoro, un’opera di investigazione che nasce in ambienti spesso insospettabili, borghesi, intellettuali (leggere gli atti del processo agli assassini di Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera ammazzato dai terroristi rossi il 28 maggio del 1980), fino alla realizzazione del colpo, lo spegnimento della voce dissonante. È il macabro gioco del silenzio. E tutti stanno zitti.

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